ADDIO BOTERO, MAESTRO DEL VOLUME E DELLA FANTASIA (di Chiara Volpe)
“Non penso che a ciò che vedo, non ho mai visto gli angeli”, afferma Gustave Courbet; “Credo solo a ciò che non vedo e unicamente a ciò che sento”, sostiene Gustave Moreau. Questa, in sintesi, la differenza tra Realismo e Simbolismo, cioè fra la scelta di indagare il mondo oggettivo e quella di andare oltre l’esperienza.
Aveva 24 anni quando si accorse di aver raffigurato un mandolino completamente sproporzionato, tozzo e allargato ed ecco, in quel momento, l’intuizione: da un lato l’universo misurabile, dall’altro quella scintilla di fantasia che agisce da fermento verso una trasformazione creativa del reale.
I rapporti con la vita e gli oggetti divengono, allora, imprevedibili. Il simbolo è elemento rivelatore e Botero nasce una seconda volta, stavolta come artista.
Le sue figure sono reali, ma non rappresentano soltanto la realtà: animali, orologi, lampadine, uomini e donne, tutto viene deformato nel senso dell’abbondanza, così da invogliare al godimento, al desiderio, al piacere carnale e intuitivo, all’esaltazione della vita.
Come afferma Jean Clair, il Simbolismo esiste perché l’uomo ha voluto rappresentare un suono, un odore, un’emozione, una qualche realtà in assenza di essa, inventando un linguaggio che crei un ponte tra il segno e l’idea.
“Non dipingo donne e uomini grassi, ma dipingo sempre un volume. A me piace comunicare questa pienezza, questa generosità, questa sensualità, perché la realtà è arida”.
Sono i manichini di De Chirico che si animano, pur mantenendo una distanza psichica e morale, estraniati dalla drammaticità del loro tempo. “L’arte è una tregua spirituale e immateriale dalle difficoltà della vita”. In contrasto con la tendenza alla tragicità dell’arte moderna, resta un artista amato dal popolo, geniale e di fama, la chiave è forse proprio la contrapposizione, la contraddizione. La sua Ballerina danza con grazia su un palcoscenico dove un solo chilo in più avrebbe potuto segnare la fine di una carriera.
Botero dimostra come l’artista possa e debba seguire il filo d’Arianna della propria immaginazione. Può dipingere l’Acropoli di Atene, le piazze solitarie, la pera come il viandante. Può esplorare il Rinascimento, studiare Michelangelo, Giotto, Tiziano o Rubens, oppure fermarsi alla semplice decorazione.
Il dono è lo stupore dato dalla ubiquità della sua arte, rivoluzionaria perché fuori misura, di una felice e appetitosa opulenza. Nessuna differenza tra il benessere che dà la visione della Maya Desnuda e quello delle sue donne deformate dagli specchi che tappezzano lo studio dell’artista e che lo aiutano e ispirano nella conferma di uno stile unico.
La nostra soggettività spesso si affoga nel conformismo della finzione, della solidarietà, della omologazione e persino l’artista si sottomette, tanto da cancellare ogni sprazzo di creatività. Dimentica di specchiarsi e di ritrovare se stesso anche in un solo piccolo frammento di quel vetro.
Una svolta personale sta nel disincanto dell’autonomia che si fa dettaglio, una parentesi tra muri di caos schiacciante, in questo mondo. Nonostante fosse in gravi condizioni, ha deciso di lasciare l’ospedale per tornare a casa sua, alla sua tranquillità. La settimana scorsa dipingeva ancora, insaziabilmente. Lo si può immaginare andarsene zitto, “tra gli uomini che non si voltano” come scrive Montale, attraverso quel vetro, con il suo segreto.
Chiara Volpe
L’AUTRICE
Chiara Volpe nasce a Palermo, nel 1981. Laureata in Storia dell’Arte, ha svolto diverse attività presso la Soprintendenza per i Beni Culturali di Caltanissetta, città in cui vive. Ha lavorato per una casa d’Aste di Palermo, ha insegnato Arte, non trascurando mai la sua più grande passione per la pittura su tela, portando anche in mostra le sue opere. Attualmente, collabora anche con il giornale online Zarabazà.