LA MARCIA SU WASHINGTON DEL ’63: I PROTAGONISTI, ANCHE I MENO NOTI (di Melania Acerbi)
Il 28 agosto del 1963, dal Lincoln Memorial di Washington, il pastore protestante e leader della SCLC (Southern Christian Leadership Conference), Martin Luther King Jr., proferiva, di fronte a una folla di 250 mila persone, il suo celebre “I have a dream“, considerato tra i discorsi politici più suggestivi del Novecento.
La Marcia su Washington per il Lavoro e la Libertà (March on Washington for Jobs and Freedom) rientra tra le manifestazioni pacifiche più grandi che la capitale statunitense abbia mai ospitato e la più partecipata in assoluto fino a quel momento. Nella storia della lotta per il riconoscimento dei diritti civili e politici degli afroamericani, insieme alla sentenza Brown vs Board of Education e al Montgomery Bus Boycott, l’evento rappresenta un passo decisivo: nei due anni successivi verranno approvati, infatti, il Civil Rights Act (1964) e il Voting Rights Act (1965), grazie ai quali si concluse l’epoca, iniziata nel 1877, delle cosiddette leggi “Jim Crow” – difese con forza, tra gli altri, da uno dei più convinti oppositori dei movimenti per i diritti civili, il governatore dell’Alabama George C. Wallace, noto per il suo «[…]segregation now, segregation tomorrow, segregation forever».
Se Martin Luther King, assassinato nel ’68 a Memphis, costituisce una figura tra le più illustri del secolo scorso, meno conosciuti sono gli altri alfieri della libertà che con MLK hanno collaborato o che, come lui, hanno dedicato la propria esistenza a tale causa. Tra questi, a quasi sessant’anni dalla fine della segregazione, preme ricordare il socialista democratico Thomas David Kahn (1938-1992).
Tom Kahn (nato Tomas Marcel) rimase affascinato, fin da ragazzo, dal socialista democratico Mike Harrington e dall’ex comunista Max Shachtman. Nel ’56, durante una riunione tenutasi al Brooklyn College della Young People’s Socialist League, di cui Kahn era membro insieme a Rachelle Horowitz, Shachtman, un convinto anti sovietico, illustrò al pubblico di giovani newyorkesi il triste scenario della primavera di Budapest, dove migliaia di innocenti avevano perso la vita nel tentativo di contrastare l’intervento armato delle truppe sovietiche accorse per sedare la rivolta. La Horowitz (attivista per i diritti civili all’epoca della marcia), nel suo Tom Kahn and the fight for democracy: a political portrait and personal recollection (2007), riporta le parole che l’amico fraterno usò per descrivere l’effetto che il discorso di Shachtman ebbe su di lui: «Ricordo ancora l’orrendo ritratto che Max [Shachtman] dipinse quella sera – del rullare dei carri armati russi, di lavoratori e studenti ungheresi indifesi che cercavano di respingerli a sassate, delle speranze schiantate di quell’eroica gente e dei nostri socialisti democratici legati a quelle speranze. Libertà e democrazia non erano astrazioni: erano reali e potevano pertanto essere distrutte. Il totalitarismo comunista non era solo una forza politica o un’aberrazione ideologica da stroncare in un dibattito. Era una mostruosa forza fisica. La Democrazia non era la ciliegina sulla torta socialista. Essa era la torta stessa – senza la quale non sarebbe esistito alcun socialismo per cui combattere. E, se aveva senso combattere per questo socialismo qui [in America], valeva la pena di combattere per esso ovunque: il socialismo non è nulla se non è anche profondamente internazionale. […] Non ricordo se fu quella la sera in cui mi iscrissi [al partito socialista], ma fu senz’altro il momento in cui ne divenni convinto sostenitore» (trad. mia).
Da quel momento, Kahn si sarebbe impegnato, fino alla prematura morte, in un attivismo radicale e incisivo affinché gli afroamericani potessero godere, negli Stati Uniti, di tutti quei diritti civili e politici appannaggio dei cittadini bianchi. Lavorò instancabilmente, inoltre, per sanare le contraddizioni che contaminavano la democrazia americana e per migliorare il trattamento economico riservato agli operai e ai lavoratori agricoli.
Al ‘56 risale anche l’inizio della stretta collaborazione con l’attivista per i diritti civili ed ex-comunista Bayard Rustin, il vero organizzatore della marcia del ‘63, anche se il merito sarà riconosciuto ai soli “Big Six”(MLK Jr., A. Philip Randolph, John Lewis, James Farmer, Whitney Young e Roy Wilkins). Ancora, Kahn sapeva maneggiare la penna divinamente: fu lui, infatti, l’autore del lungo e toccante discorso che A. Philip Randolph pronunciò in occasione della marcia. Lo “speech-writing”, in effetti, divenne un vero e proprio mestiere per lui, tanto da essere assunto, a tale scopo, anche dal senatore democratico Henry “Scoop” Jackson (uno dei “Cold war liberals”, termine usato, a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, per indicare i politici liberali che supportavano cause care ai socialisti, ma che avversavano il totalitarismo comunista di stampo sovietico).
L’impegno sociale e politico di Kahn, d’altronde, si fece conoscere anche al di fuori degli States. Alla fine dell’Agosto del 1980, ancora prima della fondazione di Solidarność, Lane Kirkland (Presidente di AFL-CIO, la federazione di sindacati più grande d’America) propose, in aperto contrasto con il Presidente Jimmy Carter e con l’URSS, lo stanziamento di un fondo per supportare economicamente i lavoratori polacchi che si opponevano al regime comunista sovietico. Senza esitazioni, Kirkland decise che dovesse essere proprio Tom Kahn a occuparsene, il quale accettò l’incarico con grande entusiasmo. L’amica e rifugiata polacca Irene Lasota, in occasione del suo funerale, ricordò Kahn come «Il miglior amico che Solidarność ebbe a Washington». Attraverso Tom Kahn, infatti, Solidarność ottenne ingenti aiuti materiali e il totale appoggio politico di un uomo che, senza mai cedere, sfidò forze in grado di schiacciarlo, dal Presidente degli Usa all’Unione Sovietica.
Impossibili da ricordare, nel poco spazio di un articolo, tutti i meriti e le imprese di Tom Kahn, valoroso difensore della libertà nel proprio Paese così come fuori da esso. Un soggetto inimitabile, la cui essenza può essere rintracciata, in sintesi, nel titolo di un suo bellissimo saggio degli anni ’60: Let us live to make men free.
Il reverendo Freddie Lee Shuttlesworth (1922-2011), anch’egli un protagonista del Black Freedom Struggle, poco prima di morire ebbe a dire che la lotta per il riconoscimento dei diritti umani, civili e politici degli anni ’50 e ’60 non ha, spesso, nulla a che vedere con le rivendicazioni di molti degli odierni attivisti della sinistra americana, alcuni dei quali sostengono di aver raccolto l’eredità di MLK, Bayard Rustin o Ella Baker. Sarebbe un peccato se anche la figura di Tom Kahn, uomo pure di sinistra, dovesse subire in futuro una tale strumentalizzazione.
Melania Acerbi
L’AUTRICE
Melania Acerbi è nata a Pistoia, il primo di settembre del 1993. Storica dell’età moderna, laureata a Firenze. I suoi studi si concentrano sull’impatto del Nuovo mondo su quello Vecchio, sulla storia della cultura, delle idee e dei viaggi per mare. Fonda nel 2017, insieme a Piero Manetti e al professor Igor Melani, il Seminario Permanente di Storia Moderna che si tiene ogni anno al Polo di Storia dell’Università degli studi di Firenze (e in diretta streaming).