BUON COMPLEANNO, TORI AMOS – SESSANT’ANNI DELLA DEA (di Paride Candelaresi)
Tori Amos è stata la più grande artista degli Anni Novanta. Nell’aprile del 1992, il mitico Jerry Bryant la invita al suo show per un’intervista. La sera stessa, Tori avrebbe cantato allo Schubas Tavern di Chicago, per una data del suo Little Earthquakes tour.
Lei è seduta su uno sgabello di legno, ha un paio di jeans blu a vita alta e una maglietta azzurra per niente ricercata. I suoi capelli sono leggermente vaporosi e dall’aspetto vissuto, porta una cintura di pelle marrone. Alcune volte guarda timidamente in basso, altre fissa il suo intervistatore dritto negli occhi.
Parlando della sua musica e di quell’album storico che contiene, fra le altre, Winter, Crucify e Silent all these years, racconta della sua vita di figlia di pastore, di artista, di quanto le piaccia la pizza sottile e del suo modo di fare musica. A un certo punto, guarda l’intervistore e gli chiede: “Perché non vieni al mio show stasera? (…) Siamo solo io e il piano e penso che sia un’esperienza interessante, perché non ti addormenterai, te lo garantisco. Ti offro un cappuccino, nel caso”, poi ride.
L’essenza di Tori Amos può essere racchiusa in quella manciata di minuti. Emana ad ogni gesto essenza femminile ed erotismo. Risponde alle domande in modo chiaro e senza giri di parole. Si trova a suo agio nel raccontarsi: è di una bellezza stratosferica, e ne è consapevole. È intelligente, sa ridere e far ridere. Tutto ciò già basterebbe per ambire a essere un’icona della musica. Il talento è, però, l’elemento che l’ha portata ad essere fra le più originali compositrici mondiali.
La donna in questione nasce in un ambiente fortemente austero e religioso. Allieva prodigio, rivela da subito una cristallina inclinazione per il pianoforte, si laurea al Conservatorio, ma sono i grandi pezzi del rock ad ammaliarla. “Ci ha pensato mio fratello a farmi conoscere il rock, Jimi Hendrix, i Beatles, i Doors. E, al liceo, ho scoperto i Led Zeppelin. Mi hanno fulminato. Sognavo che Robert Plan si prendesse la mia verginità”.
A tredici anni scappa di casa, è una viaggiatrice irrequieta con la pelle candida e i capelli naturalmente rossi come la passione: è uno spirito libero dal temperamento ribelle. Nella sua musica parla spesso di dolore e di quel che si prova ad essere donna.
Di Tori Amos potemmo azzardare che sia una femminista, ma non militante. È senz’altro una donna consapevole che il valore artistico supera la bellezza ma, se ce li hai entrambi, il mondo ai tuoi piedi.
Nella fase più luminosa della sua carriera, negli anni ’90, ha dimostrato con i fatti che le donne in musica possono valere molto più degli uomini. Non lo ha fatto, però, con slogan pronti all’uso, capelli rainbow e storielle su Instagram. Quello è femminismo ridotto a macchietta, a pandoro con la faccia della Ferragni, o a una canzone delle Spice Girls; e non lo ha fatto neanche spogliandosi su Onlyfans o urlando “Free Britney” per la strada.
La sua dichiarazione d’intenti al mondo l’ha sussurrata con brani che hanno cambiato il corso della musica pop. Basta sentire uno scarto (sì, uno scarto), o meglio, una b-side, del suo primo album per capirlo: Flyng Dutchman, registrazione fra le più intelligenti degli ultimi decenni.
Per capire di cosa stiamo parlando, mettete le cuffie e sentite questo pezzo ispirato dall’Olandese Volante che, badate bene, non ha la struttura tipica della canzone pop, ma è più simile a un movimento. Nella sezione di chiusura del pezzo, la progressione finale che possiamo ascoltare rappresenta in modo perfetto la situazione del Capitano Van der Decken, dell’amica di Tori, a cui il brano è dedicato. La nave, per Tori, non è più solo simbolo di eterna maledizione, ma può essere anche un porto nuovo per quei disgraziati che nel mezzo della tempesta implorano Dio per la salvezza. La progressione circolare finale produce nell’ascoltatore la sensazione di fare avanti e indietro, come le anime del vascello che non riescono più a tornare a casa, e trovarsi in un limbo da cui non uscire mai. È una scelta musicale intelligentissima, che dà prova della sua smisurata preparazione: riesce a creare un legame emotivo tra il contenuto del testo e quello musicale.
Flying Dutchman (2015 Remaster) – YouTube
Amos racconta nei suoi dischi anche di una sessualità tenera e sincera. “Da ragazzina mi masturbavo nella mia stanza, mentre papà teneva riunioni di preghiera al piano di sotto” dice in Icicle.
Anche qui è necessario vedere il live della canzone proposto al Jay Leno, ancora una volta nel 1994, per capirne l’altezza qualitativa. La cantautrice suona i semplici accordi del brano, portando alle estreme conseguenze quanto imparato dalla musica classica e dal repertorio di Beethoven. Infatti, come nella Sonata n.14 del compositore tedesco, dentro le pieghe della melodia triste si percepisce una grande forza interiore. Quello che fa è straordinario.
Seducente come un serpente, non le importa di stare seduta al piano in modo scomposto: deve pur guardare il pubblico e penetrarlo con lo sguardo. È ipnotico il modo in cui si ferma, allunga le note e sussurra “Gonna lay me down”. I suoi occhi ti trascinano nel pezzo, perché lei è uno di quegli artisti la cui bellezza e fisicità sono imprescindibili dalla musica. Assume una posizione dominante aprendo il suo corpo verso la camera, nel frattempo tiene il piede sinistro sul pedale (di cui fa uso prolungato per permettere alle corde dello strumento di vibrare a lungo e produrre quelle vibrazioni che tanto ci piacciono nei suoi pezzi) e passa le dita sullo strumento.
È consapevole di essere vista da milioni di persone e sottomette chiunque incroci il suo sguardo. Non ha paura di essere, semplicemente, bella. “Will you keep watch for me I hear them calling”. È una delle performance più erotiche mai viste, se per erotismo intendiamo il godimento dei sensi e la dimensione della tristezza che trova idealmente sfogo nella musica.
A un certo punto, mentre canta, si arresta per un secondo, storce maliziosamente la bocca e dà sfogo alle note scandendo la parola “Calling”: la lingua sbatte sui denti, le labbra si muovono a rallentatore come in un film di Jean-Luc Godard. Viene caldo solo a guardarla. Così come, quando getta la testa indietro, ricorda una donna che perde letteralmente il controllo in preda al piacere. Questo live non è solo sensualità, è incarnazione delle delizie.
tori amos icicle leno 1994 – YouTube
Pur affrontando differenti temi, dalla morte all’aborto, dalla religione ai conformismi, pressoché tutta la sua discografia ruota intorno l’universo femminile, il dolore e le emozioni, da cui, però, non si fa mai sopraffare.
“I sentimenti che una persona può provare sono tanti. Ma se vai in fondo, se guardi all’essenziale, quelli basilari sono solo due: l’amore, e la mancanza di amore. Esplorare questi due sentimenti primari da diversi angoli è ciò che fa un buon scrittore o compositore. Ma se pensi che ci sia dell’altro, se pensi che ci sia di più, stai solo prendendo in giro te, stesso”, dirà nel 1994 in occasione della promozione del suo album migliore, Under The Pink, come riporta Alba Solaro per le pagine di “l’Unità” nell’aprile del 1994.
La cantautrice del North Carolina disegna sulla tastiera del pianoforte storie raccontate con un linguaggio che mescola ballad, classica e leggera, echi folk e liriche sofisticate. I simbolismi (Dio, la terra, l’acqua, l’oscurità) le servono per superare i cliché sulle donne, la sessualità e i rapporti fra madri, figlie e amiche.
L’ultima performance per celebrare il suo compleanno è la canzone Precious Things, che si concentra su come ricostruirsi un’identità dopo un’esperienza tragica e scegliere di permettere che le brutture della vita non precludano le nostre esistenze: la scelta è sempre sinonimo di coraggio. Le acrobazie vocali che affronta in questo brano, più precisamente nella live Session del 1998, sono incredibili. Il modo in cui la chitarra di Steve Caton insegue la sua voce, le inedite sfumature primitive della sua voce e lei che, incontenibile, si alza dallo sgabello come una sirena in preda all’eccitazione. In questo live, lei fa l’amore con i suoi musicisti cercandone lo sguardo mentre canta.
A un certo punto, loro, nel pieno dell’impulsività scandita dalla musica, a metà performance, si avvicinano al piano, come un gruppo di lupi accerchia la preda. Ma è lei, ancora una volta a dominare: nell’esibizione c’è molta improvvisazione ed è appagante vedere come Tori, verso la fine dell’esecuzione, alzi la mano per chiedere agli altri di stoppare il brano, iniziato su binari conosciuti e finito nell’improvvisazione.
La sua interazione con i musicisti è sensazionale, il conflitto tra sensualità e ascesi è lacerante, soprattutto grazie al pathos dettato dalla batteria di Matt Chamberlain. Tori, per tutto il pezzo, dolcissima ma determinata, tiene traccia di quello che fanno i suoi colleghi, li anticipa e gli indica la direzione in cui vuole andare. È di nuovo lei a dominare il testosteronico gruppo di musicisti che si arrendono alle sue indicazioni. Se non è un manifesto di femminismo questo, mi chiedo che cosa possa esserlo.
Tori Amos – Precious Things (Live Session 1998) – YouTube
Il mio album preferito sarà, come sempre accade, il primo che ho ascoltato: From the Choirgirl hotel. Solo il videoclip e la melodia di Spark varrebbero da soli i soldi dell’acquisto, ma sono imprescindibili anche Liquid diamonds, Pandora’s Aquarium e She’s your cocaine.
Mi concentro su un aspetto che non considera mai nessuno: Hotel e Raspberry swirl sono il contraltare dei brani Swim e Ray of Light tratte, invece, dal disco omonimo e unico capolavoro di Madonna (unico come deve giustamente essere un capolavoro) del 1998.
Le canzoni sarebbero perfettamente interscambiabili e funzionerebbero magnificamente l’una nell’album dell’altra collega. Non a caso il tema dell’acqua è presente in entrambi i dischi, tutti e due intensi e personalissimi. Ma non confondiamoci: se Madonna è la regina del femminismo di massa venduto a buon prezzo, Tori non guarda alla confezione e incarna l’essenza dell’essere femmina parlando di aborto e amori difficili.
In From the Choirgirl Hotel, la cantante vira verso il rock & roll che l’ha sempre guidata, fin da quando è stata cacciata dal Peabody Conservatory. Mentre i suoi primi due grandi dischi si impegnavano a estendere la base pianistica, Boys for Pele del 1996 sperimentava la rottura col suo compagno storico e nuovi suoni – non tutti digeribili, sia chiaro. From the Choirgirl Hotel riapre la partita e una nuova fase della sua carriera. In quest’album la voce è più cupa, il tessuto sonoro più stratificato, figlio di quel moderno sound FM e del pop mainstream di Bjork, della P.J. Harvey degli anni Novanta.
Il disco della sua consacrazione mondiale, la sua pietra miliare, con oltre due milioni e mezzo di copie vendute nel mondo, è Under the pink. Finanche le b-side sono tutte belle da ascoltare (Honey e Black Swan su tutte) e giustamente inserite nell’edizione deluxe dell’anno scorso, perché, quando produci album di genio e diamante come quello, persino gli scarti sono ottimi.
Dagli anni Duemila in poi, chiusa la sua era d’oro con la Atlantic, Tori Amos non ha sempre brillato e ci ha ricordato che anche i miti cadono e gli eroi piangono. Spesso continuiamo a comprare i suoi dischi perché ci ricordano una vecchia amica con cui siamo stati bene da giovani e ogni tanto fa piacere rivedere per un caffè, ma nulla di più. Non tutti i suoi ultimi lavori hanno funzionato e talvolta i suoi fan continuano a chiedersi: Tori, perché ci fai questo? D’altra parte se nel 1998 cantava “I can be cruel, I don’t know why”, ci sarà un perché.
Paride Candelaresi
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L’AUTORE
Paride Candelaresi, 35 anni, ciociaro fuori e sabaudo dentro. Scrive per diverse testate locali e va dritto al punto. Propaga fervori sulla sua pagina Instagram dedicata ai libri. È consigliere comunale e Presidente della Commissione Cultura del Comune di Asti. Sostiene “Do fastidio, ma ho il cuore tenero”.