“PUOI ESSERE CIÒ CHE VUOI”: L’EPOCA DELL’IDENTITÀ PSICOLOGICAMENTE DISTURBATA (di Matteo Fais)
Non è strano imbattersi, in particolare sui social, in elogi della possibilità di essere qualsiasi cosa si preferisca, a seconda di come ci si sveglia, del giorno, dell’ora, del secondo, seguendo l’umoralità più instabile e lunatica. Addirittura, qualcuno invitava a prendere con serenità il fatto di identificarsi ieri con Mercoledì Addams e, oggi, con Barbie, cioè con dei personaggi della finzione, di film o produzioni della ricca industria culturale. Precisamente stava scritto “Potete essere tantissime cose e non c’è nulla che non va”.
Una delle principali caratteristiche dell’essere umano è certo quella di non essere mai fino in fondo sé stesso. Per quanto il soggetto possa impegnarsi in un ruolo, egli non è mai ciò che è come questo tavolo è rettangolare. L’essere di quest’ultimo è solido, come quello del minerale. Esso è, senza la possibilità che nulla turbi la sua natura. Chi l’ha progettato e, successivamente costruito, gli ha violentemente imposto un’essenza: servire per ospitare qualcosa sopra di sé.
L’uomo non sarà mai un tavolo, poiché egli è libero. Potrà ben dire Socrate di essere quell’uomo coraggioso che va incontro al proprio destino, bevendo la cicuta e assumendo su di sé l’autorità delle Leggi della Polis che l’hanno condannato. Egli mente, come il cameriere che fa di tutto con il suo atteggiamento solerte e servizievole per sembrare solo e unicamente un semplice cameriere. Entrambi si impegnano in operazioni che li portino a essere ciò che sono. Eppure, sia l’uno che l’altro potrebbero decidere di cedere: Socrate alla codardia, fuggendo dalla città e dal tribunale che l’ha giudicato; e l’altro a un’idea che gli suggerisse la visione del suo ruolo come semplicemente degradante, da sfruttato.
Quindi, sì, assolutamente, l’uomo è libero, anzi condannato a essere tale. Se fuori impazza la guerra, tra morte, sangue, stupri e distruzione, io posso ben decidere di godere del mio privilegio e continuare a dedicarmi al sollazzo letterario, opponendo il mio otium alle grida strazianti che giungono da là fuori. La Storia stabilirà, in futuro, se ero un uomo che ha fatto una scelta in controtendenza, o semplicemente un imboscato infame che non è andato a supportare i suoi connazionali in lotta per liberare il Paese dall’invasore.
Sta di fatto che tendenzialmente, con maggiore o minore sofferenza, a seconda dei casi, e per quanto destinato allo scacco, l’uomo è un disperato tentativo di essere fino in fondo ciò che è. Il professore cerca di mostrarsi, financo nel modo di vestire austero e castigato, come quell’uomo che mette l’intelletto sopra ogni cosa. La puttana, che ostenta la sua carne, fa di tutto per apparire come votata anima e corpo al conseguimento del piacere. Per questo, dice Sartre, “l’uomo è una passione inutile, un progetto fallito di essere Dio”, cioè di coincidenza con il proprio essere.
In ultimo, noi siamo il nostro immane e fallimentare compito di essere qualcosa: professore o puttana, santo o libertino, manovale o uomo di lettere. Noi siamo, insomma, il tentativo di trovare una stabilità su fondamenta ontologicamente terremotate. Questa volontà ci ossessionerà dalla culla alla tomba.
Al netto di tutto, non vi è niente di strano in questa aspirazione. La volontà che non si limita sfugge a sé stessa verso la pazzia. E ciò è esattamente quello a cui siamo assistendo. Invece di progettare sé stessi, fuggire da qualsiasi ambizione di concretezza. Essere oggi Mercoledì Addams, domani Barbie, dopodomani un satellite che gravita intorno a Marte.
Perciò la nostra è l’epoca dell’instabilità psicologica eretta a sistema, della schizofrenia che diviene paradigma del vivere civile. Non più maschi o femmine, bianchi o neri, intellettuali o cultori della leggerezza, rifiutando o facendo proprio tutto ciò che questi diversi aspetti comportano, ma fluidi e senza peso, sollevati da quello che Pasolini chiama “il selvaggio dolore di essere uomini”. Perché di lottare contro un male si tratta: quello di esistere, di dover essere, di trovare un proprio spazio nella valle di lacrime, di decidere se assumere o rifiutare il destino che gli altri ci hanno cucito addosso – il padre di Proust era solito dire “Marcel è un abulico, nella vita non combinerà mai niente, perderà solo tempo”.
Quando sarà realizzata la morte dell’identità, di cui già adesso vediamo alcune tragiche e patetiche manifestazioni, l’umanità sprofonderà in un gioco di specchi che non rimanda se non al vuoto, all’inconsistenza. La dissoluzione è la nostra sorte, l’entropia totale della soggettività.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi. Di recente, ha iniziato a tenere una rubrica su Radio Radio, durante la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana, intitolata “Il Detonatore”, in cui stronca un testo a settimana.