HA RAGIONE SAMUELE BERSANI: QUESTI TRAPPER SONO DEGLI INCAPACI, LO SPECCHIO DEL NOSTRO PAESE (di Matteo Fais)
Non è vero che l’argomento è secondario, per così dire estivo. La questione è politica nel senso più vasto del termine. Un Paese rivela sé stesso in tutte le sue manifestazioni intellettuali, dice chi lo abita, perché il mercato dell’industria culturale è lo specchio di ciò che i cittadini vogliono.
Se l’Italia canta “E guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere/ Se poi è tanto difficile morire/ E stringere le mani per fermare qualcosa che è dentro me/ Ma nella mente tua non c’è” di Battisti-Mogol, o “Stanza 26, io fatto in hotel/ Come Kurt Cobain, fumo Marlboro Red/ Lei si sfila i jeans, poi li sfila a me/ Lancio i soldi in aria, anche oggi sono il re” di Sfera Ebbasta, non si può certo sostenere che la cosa non sia sintomatica di due sentimenti del tempo diffusi e radicalmente differenti.
Dunque, ha ragione da vendere Samuele Bersani a perculare la marmaglia di cantantorucoli da autotune che non sanno neppure intonare un pezzo monotono – a onor del vero, anche Battisti prendeva qualche stecca, ma con stile, o meglio in una stonatura di bellezza.
Qui non c’è neppure la forza e l’impegno sociale del rap italiano nato nei quartieri popolari, come in SXM dei Sangue Misto, o i miracoli metrici di quel folle scatenato di Eminem. Su questi mocciosi che fanno finta di cantare, privi anche di una creatività postmoderna, ci scatarro sù, per dirla con il genio di Manuel Agnelli.
Non c’è niente da fare, gli Italiani sono circondati da ciò che hanno creato e voluto. Quella è la loro carta di identità. Se un teatro lirico fa meno del tanto per tenere su la baracca e un trapper riempie uno stadio, non ci sono scuse, solo senso di mortificazione tra gli individui appartenenti alla popolazione civilizzata.
Del resto, come pretendere che, in un tale trionfo di uomini e donne dalla pelle inchiostrata, l’idolo sia il compianto Herbert von Karajan, Riccardo Muti, o Daniel Barenboim. Oggi, persino il popolare è la cloaca del popolo. Un Bersani a paragone sta accanto ai grandi compositori e un Baccini – sempre stato bravissimo e sottovalutatissimo – meriterebbe un quartiere, già adesso, con il suo nome, a Genova, la città natale.
Altro che giovanilismo! Questi ragazzi non hanno niente da dire e ciò traspare oltre ogni possibilità di infingimento. Tatuaggi e abiti da coglioni, monopattini da infanti e alcolici da discount sono la loro vita. Ad ascoltare la musica che creano, c’è da optare per il suicidio, se si ha un minimo di gusto e senso estetico. Manca tutto, persino la liberazione sessuale, ridotta oramai a esibizione di culi su Instagram – ma “se mi guardi, sei un porco”. Questa gente, nella storia, lascerà unicamente un vuoto. E questa è l’unica cosa positiva che da loro possiamo aspettarci.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi. Di recente, ha iniziato a tenere una rubrica su Radio Radio, durante la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana, intitolata “Il Detonatore”, in cui stronca un testo a settimana.
Hai hai signora Longari…