IL POSTMODERNO: CHE VUOL DIRE E PERCHÉ LO SIAMO UN PO’ TUTTI (di Matteo Fais)
Se frequentate i social, avrete certo sentito parlare più e più volte di postmoderno. Nel 95 percento dei casi, meglio saperlo, il termine è usato impropriamente, se non addirittura a cazzo di cane, facendo addirittura confusione tra la società postmoderna e quella liquida del fu Zygmunt Bauman. Peraltro, sovente, l’accezione negativa data al termine deriva unicamente da certi sviluppi dell’argomento – che, per esempio, in Italia, trovano il loro massimo rappresentante nel filosofo Gianni Vattimo, teorico del Pensiero Debole che, partendo dalla lezione postmoderna, tenta di avanzare una soluzione positiva ai problemi sollevati.
Il concetto di postmoderno diviene famoso tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 del secolo scorso, quando un professore francese di filosofia, tale Jean-François Lyotard, dà alle stampe un breve ma intensissimo volume intitolato La condizione postmoderna. Il testo è in origine concepito come un rapporto sullo stato del sapere nelle società occidentali avanzate, postindustriali e che allora cominciavano a entrare nella fase cosiddetta dell’informatizzazione e di un mercato oramai globale.
Naturalmente, è inconcepibile restituire in un articolo tutta la complessità di un testo che, non per niente, ha agitato fin da subito il dibattito culturale da un capo all’altro del mondo. Non sarà quindi possibile discutere fino in fondo, per esempio, l’idea di un sapere divenuto, nell’universo capitalista, sempre meno fine a sé stesso e sempre più monetizzabile, dunque potenziale fonte di guadagno.
Due cose però sono da tenere bene a mente, prima di procedere verso il centro nevralgico del discorso di Lyotard: a) il suo è un resoconto, non un’apologia e tantomeno un elogio della società presente, una mera descrizione, una presa d’atto di un determinato stato di cose; b) postmoderno non equivale a un generico e pericoloso “liberi tutti”, o ”abbasso i valori”, come molti credono, per cui andrebbe bene qualsiasi follia dalla pedofilia al terrorismo islamico. Il filosofo francese non ha mai sostenuto queste tesi e neppure Vattimo, con il suo debolismo intellettuale, si sentirebbe di sottoscrivere una tale apertura al caos.
Che cosa è dunque la postmodernità? Va da sé che si tratta di una tendenza che si pone in contrapposizione rispetto alla modernità. Senza stare qui a fornire date e a discutere se questa inizi o meno con la scoperta dell’America – o quando abbia termine -, essa, sul piano filosofico, è quell’epoca che si caratterizza per poche e mastodontiche meta narrazioni, altrimenti dette grandi narrazioni – è bene ricordare che qualsiasi società risulta immersa entro una narrazione di sé, partendo dalla quale si definisce e struttura.
Che cosa siano queste grandi narrazioni è presto detto: si tratta di tutti quei racconti in merito a una Storia – non per niente indicata con una s maiuscola – concepita come avente un fine ben preciso (un telos), come il raggiungimento di una conoscenza massima da parte dello spirito umano, la liberazione da pregiudizi e superstizioni come auspicava l’Illuminismo, il Progresso scientifico che affranca l’uomo dalle pastoie del vivere naturale e, in ultimo, certamente, la concezione avanzata dal marxismo dell’avvento di una società senza classi, in cui a trionfare sarà un’umanità finalmente priva di catene.
Perché nasce e si sviluppa una diffusa disillusione rispetto a tali inquadramenti interpretativi? Per esempio, perché ci si è resi conto che la Scienza non persegue unicamente il bene dell’umanità, ma è spesso compromessa con interessi economici, come abbiamo tristemente constatato durante il periodo pandemico (Lyotard per primo sostiene che, diversamente dalla modernità, gli Stati abbiano sempre meno potere, il quale sarebbe passato in massima parte nelle mani di grandi gruppi finanziari, tra cui le case farmaceutiche).
Ancora, il presunto progresso umano e scientifico si è in ultimo rivelato una mera illusione di palingenesi, anche perché ha spesso condotto, nel Novecento, a risultati catastrofici, come i campi di sterminio, in cui questo è stato piegato al fine di rintracciare il modo più celere e meno dispendioso per uccidere il maggior numero di esseri umani – si pensi anche, in tal senso, alla bomba atomica.
In ultimo, il marxismo ha mostrato l’altra faccia del sogno rivoluzionario: lo stalinismo, il gulag, lo Stato Totalitario, la censura e la repressione del dissenso, l’inedia diffusa.
Naturalmente, le narrazioni non sono scomparse, ma si sono frammentate in milioni di rivoli. “Il Detonatore”, per dire, è una di queste, insieme alle tante riviste, dai più diversi orientamenti, che potete trovare online. Non più una voce unica calata dall’alto, o da un giornale che funge da organo di propaganda di Stato – ecco cosa significa che, oggi, ognuno ha un suo pubblico. Il numero dei parlanti si è moltiplicato a dismisura, fino a far venire meno l’idea di un principio di autorità assoluta – il famoso “ma l’ho letto sul giornale”.
Il discorso può conoscere infinite complicazioni e approfondimenti. Vi basti considerare l’ambito artistico, nel senso più vasto del termine. Siamo sicuri che solo un film di Bergman sia arte con la A maiuscola? Vieni avanti cretino di Salce, con Lino Banfi, nel suo ambito, non è forse, a sua volta, un’opera completa, che rispetta mirabilmente i tempi comici, e che porta a compimento il fine posto, ovvero far sganasciare dalle risate? Volendo essere ancora più estremi: siamo sicuri che creare un film porno coinvolgente sia così semplice e non richieda, in un certo senso, un talento artistico, per quanto la cosa possa far sorridere? Ovviamente, questi sono solo spunti e i casi potrebbero moltiplicarsi.
Ciò che è importante capire è che tutti noi siamo immersi in tale atmosfera diffusa, in cui alto e basso sono scomparsi, dei fondamenti assoluti sono andati perduti. Coloro che sono scesi in piazza contro il green pass e l’obbligatorietà vaccinale, per capirsi, hanno manifestato un’attitudine massimamente postmoderna di critica rispetto alla grande narrazione rappresentata dal patetico “io credo nella scienza”. Similmente, i camerati e i compagni rossobruni uniti insieme sul fronte antiamericano – gente, invero, ideologicamente e psichiatricamente molto borderline – sono un ulteriore esempio di perdita di confini stabili e netti. Anche considerare la democrazia putiniana, come un qualunque regime comunista o islamico, migliori dell’Occidente, ritenuto falso e ipocrita nella sua apparente libertà, è in fin dei conti una posizione postmoderna che respinge la grande narrazione del nostro mondo in contrapposizione a un impero del male di reganiana memoria.
Se, poi, tali risultati siano qualcosa di positivo è certo discutibile. A ogni modo, ogni messa in dubbio dell’autorità e del suo culto è da salutare felicemente, poiché aderente al più profondo dettato filosofico occidentale. Poco ma sicuro, Lyotard, di provenienza marxista, non ha mai appoggiato un’idea anarchica e tantomeno di capitalismo senza regole, ma unicamente ritenuto che un certo modo di fare critica sociale, formulato nell’800, fosse oramai superato.
Per quel che vi riguarda, è importante che smettiate di utilizzare il termine in questione con troppa disinvoltura e senza prima documentarvi rispetto alla grande narrazione, del tutto fuorviante, che a esso si accompagna.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi. Di recente, ha iniziato a tenere una rubrica su Radio Radio, durante la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana, intitolata “Il Detonatore”, in cui stronca un testo a settimana.