ADDIO A MILAN KUNDERA, PROFETA DELL’ANTICOMUNISMO E DELL’IRONIA, CONTRO LO SPIRITO DI SERIETÀ (di Davide Cavaliere)
È morto Milan Kundera. Insieme con Franz Kafka, può essere considerato il più celebre scrittore ceco di sempre e uno dei pilastri letterari del Novecento. Il romanziere viveva in Francia dal 1975, dove si era trasferito per via dei suoi dissidi con il regime comunista cecoslovacco.
Il polacco Czesław Miłosz, spirito mitteleuropeo affine a quello di Kundera, quando apprese della morte della sua amica Jeanne Hersch, importante studiosa del concetto di libertà, si chiese «cosa ho appreso da Jeanne Hersch?». Noi, oggi, dobbiamo chiederci: «cosa abbiamo appreso da Milan Kundera?».
Il grande scrittore, protagonista del rinascimento della cultura cecoslovacca negli anni Sessanta (gli altri nomi sono Havel, Vaculík, Forman, Hrabal, Němec), attraverso le sue opere, ha insegnato che quando l’ideologia infetta le menti umane, la prima vittima è l’ironia, ovvero la capacità di ridere dello spirito di serietà, dell’engagement totalizzante, dell’effervescenza retorica dei rivoluzionari; poi segue lo spirito critico, ossia la capacità di operare distinzioni morali.
Emblematico, in tal senso, è il romanzo, Lo scherzo, forse il suo capolavoro, certamente il più antitotalitario dei suoi libri. Nella Cecoslovacchia socialista del secondo dopoguerra, uno studente, Ludvik, provoca una ragazza, che lo trascura per seguire i corsi ideologici del partito, scrivendole su una cartolina: «L’ottimismo è l’oppio del genere umano, lo Spirito sano puzza di imbecillità, viva Trotsky!». Quella del protagonista non è una professione di fede, ma soltanto una battuta, uno scherzo per l’appunto. Ma all’interno di un regime totalitario non c’è posto per la comicità o la baruffa amorosa, dunque il povero Ludvik conoscerà l’espulsione dal partito e persino il carcere. Essere «dalla parte delle storia» significa perdere la capacità di scherzare, di porre una giusta distanza da sé stessi.
Molti anni dopo, sopravvissuto all’oppressione e pronto per la vendetta, Ludvik si renderà conto che gli uomini che vorrebbe colpire si sono adattati ai tempi, insomma, sono cambiati. Come il narratore di Tutto scorre di Vasilij Grossman, si troverà a soppesare i torti e le ragioni dei suoi carnefici, rendendosi conto che nessuna valutazione schematica e manichea è possibile.
Kundera ricorda al suo lettore che il mondo non è trasparente, perfettamente intelligibile, e di conseguenza plasmabile secondo un piano individuale o collettivo. Non si possiede mai niente nella vita – ed è questo l’elemento antimoderno della sua opera –, nemmeno le proprie parole, che una volta pronunciate finiscono interpretate in modi diversi e contrastanti. Vengono subito alla mente alcune celebri, e amarissime, frasi di Pirandello: «Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio?».
Reale non è ciò che accade, ma ciò che ci accade. Nulla è più ambiguo dei fatti. Eppure, la letteratura stessa, l’arte del romanzo, è un tentativo di trovare un senso e un significato condiviso, soprattutto attraverso il dialogo. L’assurdo è il punto di partenza e non quello di arrivo, senza però avere mai la pretesa di trovare al mondo un senso univoco.
Tutti i tentativi di rendere la realtà limpida, razionalmente definita, abolendo i chiaroscuri e le incomprensioni, annullando i contrasti tra interpretazioni differenti di fatti e valori, sono ciò che Kundera chiama «Kitsch». Si tratta di tentativi fiabeschi di rimuovere gli aspetti tragici della vita. Cos’è il tragico? Altro non è che il conflitto non dialetticamente sintetizzabile, l’aut-aut che impone una perdita, l’equivocità del reale. Commentando una messinscena dell’Antigone di Sofocle, allestita prima della guerra, Kundera disse: «Uccidendo il tragico nella tragedia, l’autore ha fatto di Creonte un malvagio fascista che si scontra con una giovane eroina della libertà». È contro questa faciloneria che scaglia i suoi romanzi.
Immagine suprema del Kitsch è il corteo, la «grande marcia», all’interno della quale l’individuo si dissolve, dove tutti sono «doverosamente d’accordo». Il Kitsch, infatti, «elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile». Il comunismo era proprio questo tentativo di risolvere l’enigma della Storia, di spiegare e giustificare ogni orrore, di negare la «merda». Kitsch supremo. «Quando dico totalitario, voglio dire che tutto ciò che turba il Kitsch è bandito dalla vita: ogni espressione di individualismo (perché ogni discordanza è uno sputo in faccia alla fratellanza sorridente), ogni dubbio (perché chi comincia a dubitare di una piccolezza finirà per dubitare della vita in quanto tale), ogni ironia (perché nel regno del Kitsch ogni cosa deve essere presa con serietà)».
È questo atteggiamento scettico e ironico che i comunisti di ieri e di oggi non perdonano al grande ceco. Il suo rifiuto della lotta perpetua per realizzare qualche utopia, la sua volontà di disingaggiarsi, la sua sfiducia nei confronti delle rivoluzioni e delle palingenesi. L’unico idillio possibile, seppur difficile da realizzare, è quello privato, quello di Tomáš, Tereza e del loro cagnolino Karenin. La militanza continua, costante, sorda e severa è inutile, perché la vita «trae un piacere maligno dal confondere coloro che si vantano di poterne plasmare il senso».
Un tale atteggiamento non è nichilistico o, peggio ancora, di connivenza con oscuri poteri dominanti, si tratta piuttosto di restituire alla vita tutta la sua pienezza, tutta la sua incertezza, tutta la sua ambiguità. Di accettare l’imperfezione e la casualità dell’Essere. Il romanzo, la letteratura stessa, raccontando storie particolari e sfaccettate, ci riappacifica con la «sostanziale relatività delle cose umane». Kundera smonta il dualismo «Amico/Nemico» o «Bene/Male», inceppa la dialettica, blocca i binari su cui corre la Storia e il suo carico di «Progresso», sottrae la vita a coloro che vorrebbero irreggimentarla in una guerra continua, ridona alla realtà le sue sfumature.
Se potessi partecipare al funerale di Kundera, leggerei in sua memoria una frase che Albert Camus scrisse a Emmanuel D’Astier: «Non si vive solo di guerra e odio. Non si muore sempre armi alla mano. C’è la Storia e c’è altro». La vita è in quell’altro. La vita è altrove.
Davide Cavaliere
L’AUTORE
DAVIDE CAVALIERE è nato a Cuneo, nel 1995. Si è laureato all’Università di Torino. Scrive per le testate online “Caratteri Liberi” e “Corriere Israelitico”. Alcuni suoi interventi sono apparsi anche su “L’Informale” e “Italia-Israele Today”. È fondatore, con Matteo Fais e Franco Marino, del giornale online “Il Detonatore”.