SIGNORA LAMARQUE, QUESTE NON SONO POESIE, PER CORTESIA (di Matteo Fais)
E passi che non tutti i libri possano essere capolavori, così come non tutte le ciambelle escono con il buco, ma anche trattare i lettori come dei coglioni fa vagamente girare la marmitta. Davvero, per certi testi, bisognerebbe istituire un rimborso per i danni morali subiti.
Ma siccome è d’obbligo non usare brutte parole parlando di una vecchia signora della poesia italiana, non dirò che Vivian Lamarque si è rincoglionita dando alle stampe il suo nuovo libro L’amore da vecchia (Mondadori), limitandomi a definirla rimBAMBINITA, nel senso che si è messa a scrivere non filastrocche per i bambini, ma da bambini.
Non ci credete? Allora, come spiegate liriche quali: “Finito, già finito/ l’incantato tempo/ dei rami in fiore?/ Come quando/ sul più bello del ricamo/ finisce il filo da ricamo?”?. A parte avere tanto ritmo quanto il passo di un anziano claudicante che inciampa, questi versi, contrariamente a quel che si dice nella presentazione del volume, non sono minimamente la manifestazione di una poesia dal tono colloquiale. Sembra semmai di sentire la vecchia zia, oramai ottantenne, che parla da sola, rimestando il sugo, mentre la badante ucraina la scruta interdetta, incerta se chiamare o meno i figli.
Sta anche scritto che qui l’autrice parla di amore durante la senescenza e di quello “inventato”. Ed è proprio l’idea di questa cara nonna che scorge vecchi amori o ne sogna di mai avuti a rendere la raccolta quasi inquietante per il lettore, come quando scrive “Strano le era parso di intravvederlo sul volo/ per Cagliari, anzi da Cagliari” – la memoria gioca brutti scherzi, vero? Eh, ma qui, più che un critico, bisognerebbe chiamare un neurologo per fare l’esegesi di questi passi.
Anche una certa sovrapposizione del mondo umano con flora e fauna, a dire la sincera verità, mette in allarme – soprattutto, se una donna ha sempre vissuto a Milano: “È l’agrifoglio il mio fidanzato/ ha foglie verdi meravigliose/ ma quando punge con le sue spine/ la neve bianca la neve esangue/ diventa rossa come un sangue”. Tra parentesi, signora mia, non per insegnare alla madre come si fanno i figli, ma sto fidanzato di agrifoglio, come figura fallica, è un po’ fiacca, direi da viagra.
La poetessa, comunque, ci tiene a fare la parte dell’arzilla vecchina, quella sveglia, al passo coi tempi, che non perde colpi. Sarà per questo che sputacchia di simili versi – roba da indossare la mascherina, come durante la pandemia: “Come un Covid/ nuociamo al mondo./ E ai fili d’erba./ Dove noi passiamo/ trema il prato/ a nome/ di tutto/ il creato”. Qui, a essere complottisti, si potrebbe parlare di effetti avversi, non diagnosticati, da vaccino.
A corto di ispirazione, nostra signora Lamarque se le tenta tutte. Addirittura, ne scrive una intitolata Per copiare Saba – ovviamente, sta parlando del poeta Umberto Saba: “Per copiare Saba/ anche lei un giorno/ ha parlato a una capra…”. Meglio non continuare a citare, perché sarebbe come sparare sulla Croce Rossa.
Questo volume è, insomma, un viaggio nell’ospizio della poesia, tra rime fuori controllo, come l’urina, che richiederebbero un pannolone. È comunque commovente pensare che la poetessa abbia ancora voglia di provarci e non si arrenda. Davvero lei cerca ogni appiglio, ma le connessione neuronali sono evidentemente quello che sono – sia detto senza offesa. Lo si nota bene quando scrive le poesie ispirate ai film. I parallelismi sono proprio tirati, libere associazioni di una mente che va un po’ per gli affari suoi: “Come nel film Il pianista che Brody nascosto/ deve suonare il piano senza toccarli i tasti/ ma nella sua testa il notturno lo sente lo stesso/ Così noi che non possiamo toccarli più gli scomparsi/ egualmente nella testa li sentiamo, proprio la loro voce identica/ che ci dice vai che fai tardi, ma vero che domani ritorni?”.
Con tutto il bene del mondo, ma arriva il punto in cui, quando quello di una certa età continua a presentarsi sul lavoro, un collega più giovane glielo deve pur dire: “Eddai, nonno, ma vattene al parco e goditi la pensione”. Scusate, ma ci voleva.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi. Di recente, ha iniziato a tenere una rubrica su Radio Radio, durante la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana, intitolata “Il Detonatore”, in cui stronca un testo a settimana.