L’ANTILIRISMO E L’AMORE NELL’ESORDIO POETICO DI MATTEO FAIS (di Davide Cavaliere)
“[…] Passerai a trovarmi e in silenzio, senza dire niente penserai che avevi scommesso proprio sul cavallo sbagliato sul cretino che non ne azzecca una su quello che nella data di scadenza della maionese legge, in controluce, la sua... […]porta la puttana cinese è così dolce la sua ignoranza della tristezza. Sorriderà guardandomi morire pensando a quanti involtini primavera potrà ricavare dalla mia carcassa”. Matteo Fais, L’alba è una stronza come te, Delta 3 Edizioni. “Mi piacerebbe essere sempre più asciutto, sempre meno lirico, cosa che è difficile, visto che il lirismo oramai ci inquina quasi completamente […] tutto questo abbondare di parole ed espressioni che potrebbero essere evitate: albe, amori, che non sono poesia, ma poeticume” Simone Cattaneo, durante un’intervista, a ”Poetando”, nel 2005.
Sovente, ricordando un amore finito, magari pure male, si tende comunque a idealizzarlo. Lo si rievoca depurato e ripulito dai lati torbidi e oscuri. Si eleva la persona amata a una sfera celeste, sottacendone, quasi involontariamente, le condotte disperanti e impossibili da sopportare.
Matteo Fais, al contrario, con le sue poesie, contenute in un volume dal titolo brillante e prepotente, L’alba è una stronza come te (Delta 3 Edizioni), rammenta al lettore che l’amore, quello vero e vissuto, non è fatto di sospiri, lacrimucce e battiti del cuore, ma piuttosto ha a che vedere con un desiderato «Blowjob»: è quando i pompini / me li facevi tu / e non c’era mestizia / ma vicinanza / una dolcezza infinita / un pensare alla fortuna / del fare tutto ciò che c’era da fare / con la persona che ti ama.
«Fare tutto ciò che c’era da fare con la persona che ti ama»: esiste una definizione più veritiera dell’amore? È l’amore, non un disordinato eros, a rendere infaticabile la lingua degli amanti, a spingerla laddove, di norma, il disgusto impedirebbe di frugare. L’estasi amorosa non si realizza davanti a un tramonto, per quanto iridato: “Ti lecco la fica / e chiedo disperatamente di annegare. Mi appoggio sul ventre / e respiro con fatica. / Sono lieto e oltre ogni dolore”.
In queste poesie si fondono, in modo concreto e disperante, la carne e la parola. Il sesso, forma visibile del sentimento amoroso, è anche fonte di dolore (“Sarà da qualche parte adesso / a fare promesse e prendere botte/ con la sborra in faccia/ che è il pegno d’amore di tutti noi”), perché nessun amore dura e la donna tanto desiderata, alla quale si è detto quotidianamente «amore mio», “con l’ostinazione patetica di un cretino / che mastica pietre e lacrime”, ci ha già dimenticati incollata al corpo di qualcun altro.
Tutto, in queste liriche afflitte, intrise di un non comune umorismo nero, è abbandono e tormento. Sono versi in cui – ed è questa la loro grandezza – non vi è nulla di esoterico o simbolico. Il loro contenuto è chiaro a chiunque abbia vissuto, amato, sofferto. Sono una protesta contro quell’«inquinamento lirico», a suo tempo denunciato da Simone Cattaneo. Nessuna svenevolezza romantica, dunque, solo amori umanissimi e un po’ squallidi, vissuti da tutti, anche dai poeti, che nelle loro liriche preferiscono solitamente dimenticarli. Nessun uomo, in fondo, può negare di riconoscersi in questi versi: “Ti scopo per 3 ore / perché mi basta stare bene / essere felice e bere birra / in mutande, sul ciglio di un ‘ti amò’”.
Questi amori «storti» e un po’ «pornografici» sono autenticamente profondi, al punto da aver lasciato dolorose ulcere nel cuore dell’uomo che li ha vissuti. Spesso gli idealisti amorosi, tutti concentrati sui piaceri dello spirito e dello «stare insieme» sublime e trasceso, sono i più indifferenti al volto, ai sentimenti e al piacere dell’altro.
Fais, inoltre, possiede il «senso dell’irreparabile». Sa che ogni amore finito è finito per sempre. Gli amanti sono destinati a non tornare insieme mai più. Mai più. Le donne amate, quando se ne vanno, riaffondano nella massa anonima dalla quale il sentimento le aveva fatte, per qualche mese o anno, risalire. Non restano che notti insonni: “C’è sempre una donna in testa / che ci ha smollati /ma non ci lascia dormire /che ha mille sembianze nel sonno / e diecimila canzoni a disposizione durante il giorno / su cui farci impazzire”.
“Purtroppo, ho adorato / una donna che non sa farsi amare / se non tra braccia/ ridotte alla brutalità del possesso”, scrive lui, in tono tragico, ricordando al lettore che l’amore è un impulso incontrollabile e incoerente, che non può essere razionalizzato o ricondotto a variabili biologiche o sociologiche. Leggendo questi versi scintillanti di dolore, ho ripensato a una frase che Albert Camus invia al poeta René Char, promettendogli di non dimenticare «la bellezza del mondo e dei volti». Ecco, l’autore rimane fedele ai volti, «a V., a T., a L., a C., a un’altra V.», come si legge in esergo, perché ogni amore possiede una sua irripetibile singolarità, per quanto avvolta da un alone di afflizione e sconforto. Si amano sempre e solo persone sbagliate, al di là di ogni schematismo.
“Prima o poi / saremo due corpi liberi / di non essere più separati”. Alla fine rimangono solo speranze vane come questa. Il ritorno di una donna amata è nell’ordine del miracolo, ma come smettere di sperare? Come riuscire a dormire serenamente? All’abbandono, vero e proprio demone del poeta, non c’è rimedio. Non resta che una virile, seppur tormentata, accettazione (“Seduto su una panchina / di domenica, / guardo il sole / non c’è domani / mi lascio consumare / fino a sciogliermi / in questo rivolo di terrore”).
Leggere le poesie di Fais è, al tempo stesso, consolatorio e raggelante. Ci si sente confortati nei propri fallimenti, al prezzo però di sprofondarvici dentro. Una volta terminato il libro, lievemente rincuorati dalle pene altrui, si avverte la necessità di uscire, di andare a sedersi su una panchina, al solo fine di riposare a margine di una vita vissuta male, di accarezzare la propria impossibilità di essere normali, di ricordare un amore passato (“Che terribile abitudine il dolore/ non se ne può fare a meno/ alla fine di ogni piacere./ I ricordi sono così stupidi/ e importanti./ Sembra quasi che la vita sia/ ripensare a ciò che è stato”).
Davide Cavaliere
L’AUTORE
DAVIDE CAVALIERE è nato a Cuneo, nel 1995. Si è laureato all’Università di Torino. Scrive per le testate online “Caratteri Liberi” e “Corriere Israelitico”. Alcuni suoi interventi sono apparsi anche su “L’Informale” e “Italia-Israele Today”. È fondatore, con Matteo Fais e Franco Marino, del giornale online “Il Detonatore”.