IL GRANDE ROMANZO DISTOPICO DI STANGERUP, CONTRO LO STATO E LA COMUNITÀ (di Clara Carluccio)
Anche la colpa può essere un diritto, un atto di resistenza dell’individuo contro lo Stato. “Giudicatemi” implora Torben, protagonista del romanzo di Henrik Stangerup, L’uomo che voleva essere colpevole (Iperborea), dopo aver ucciso sua moglie Edith.
Nella Danimarca immaginata dall’autore, in una perfetta realtà distopica, gli individui vengono privati della loro spinta creativa e passionale, ogni aspetto dell’esistenza è regolamentato e sottoposto all’analisi degli esperti. I genitori conservano la patria potestà solo in possesso del “certificato di procreazione”, il quale, inevitabilmente, si trasforma in un’arma di ricatto statale: “dato che tradizionalmente erano sempre gli intellettuali a lanciare nuove idee nel mondo, il modo migliore per renderli inoffensivi era quello di accordare loro subito il certificato, abbinato però alla costante incertezza di poterlo perdere”.
Si vive accalcati in supercondomini e per le strade si vedono solo alberi morti, il contante è definitivamente sparito ed ingenti risorse vengono impiegate per la lotta all’inquinamento. Qualsiasi lettura per bambini contraria allo spirito comunitario è proibita. I cittadini devono partecipare agli incontri di AA – Anti Aggressività -, terapie di gruppo in cui i compagni praticano la libera esternazione delle proprie emozioni negative, attentamente esaminate dagli Assistenti lì presenti che elargiscono, all’occorrenza, diagnosi psichiatriche che si risolvono quasi sempre nella patologia fatale al Sistema: l’individualismo.
Per il benessere mentale della comunità, ogni elemento di disturbo va rieducato o riscritto, in una pratica che, oggi, chiameremmo cancel culture: dalle fiabe dei fratelli Grimm, con le loro figure demoniache, a quelle di Andersen, in quanto esaltazioni antisociali del singolo, fino alla modificazione del lessico – quindi del pensiero – tramite un meticoloso lavoro all’INRL (Istituto Nazionale per la Razionalizzazione della Lingua): “Cerca un termine che dia l’idea che le tasse non vengono detratte dallo stipendio ma che sono un contributo di ognuno a un fondo comune”.
Il motto è sempre lo stesso: «Il bene comune dalla Culla alla Tomba». Un bene che non si fa scrupoli a portare il singolo alla tomba in favore della massa. Il protagonista, suo malgrado, diventa le mani fisiche con cui il sacro bene comunitario si macchia del massacro di sua moglie.
Torben si ritrova immerso in una bolla di accondiscendenza e positività fino all’annullamento del reato, da lui stesso compiuto e denunciato, classificato come mero incidente: “Ho ucciso mia moglie! E non è stato un incidente. L’ho uccisa di proposito! L’ho picchiata in faccia, sul ventre, sul petto, sulla schiena! Poi le ho sbattuto la testa contro il muro e sul pavimento!”. “Punizione e colpa sono concetti che non usiamo più”, è la risposta.
Come sempre, esiste una sola spiegazione, una sola patologia: “Lo psichiatra spiegò che il suo complesso di colpa era un residuo di un passato che poneva l’individuo al centro di tutto e che nutriva una fede incrollabile nell’inviolabilità della «personalità» del singolo”.
Il protagonista si accorge che è in atto un vero e proprio esperimento di cancellazione della persona al fine di creare un “Uomo nuovo”, più funzionale al Sistema, e tenta, con tutte le forze, di rivendicare la sua colpevolezza per avere padronanza di sé, per tornare ad essere un uomo vero e non un resiliente fantoccio dello Stato.
Anthony Burgess, l’autore di Arancia Meccanica, dopo aver letto questo libro, di cui ha curato la postfazione, commenta così, nella sua battuta finale: “Se questa è la società a cui, apparentemente, tutti aspiriamo, personalmente preferisco l’anarchia”.
Clara Carluccio
L’AUTRICE
Clara Carluccio nasce a Milano, nel 1985, e risiede attualmente in provincia di Brescia. Per errore di gioventù studia alla scuola agraria del quartiere Comasina di Milano, incidentalmente ubicata in prossimità dell’istituto Paolo Pini, il manicomio in cui venne rinchiusa la poetessa Alda Merini. Dopodiché, decide di perfezionare la sua conoscenza del mondo tra lavori precari e umilianti della peggior specie. Si trova così a svolgere mansioni quali: Oss in una RSA, segretaria, barista, guardarobiera in discoteca non guardata da nessuno, cameriera ai piani, cuoca incapace in un centro disabili, domestica – non dite colf – in nero e banconiera al supermarket declassata poi al semplice ruolo di scaffalista inutile al mondo e a se stessa – il tutto con un contratto da stagista. Suo malgrado, colleziona infruttuosi corsi di cucito, danza quale tribal fusion e contemporanea, naturopatia. È appassionata di lingue straniere, in particolare inglese e portoghese. È approdata a “Il Detonatore” dopo vari messaggi di stalking rivolti all’indirizzo di Matteo Fais. La trovate su Facebook e Instagram, ma non riesce a postare i suoi link.
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