“COSE CHE NON SI RACCONTANO”: UN LIBRO DA LEGGERE PER CAPIRE COSA PENSANO REALMENTE LE DONNE CHE VOGLIONO DIVENTARE MADRI (di Matteo Fais)
Se volete leggere la verità sulla squallida prigione terrena, dovete prendere in mano La nausea di Sartre, Lo Staniero di Camus, Viaggio al termine della notte di quella canaglia di Céline, o uno qualunque dei capolavori del più grande bastardo della letteratura mondiale, Michel Houellebecq. In essi troverete tutto l’orrore, l’oscena miseria della vita e di ogni cosa che condivida la perversa condizione di esistere.
Poi, ci sono testi che è comunque obbligatorio sfogliare – o meglio ancora studiare da un punto di vista antropologico – per capire quanto possa fare schifo il mondo odierno. Uno di questi, da consigliare a tutti gli uomini dai 15 ai 50 anni, e non per il suo alto valore letterario, visto che è più autoerotismo del proprio ego in forma di prosa, è Cose che non si raccontano (Einaudi) di Antonella Lattanzio. Niente di più utile per sapere cosa pensa l’italiana media dei nostri tempi, quando le viene in testa di fare un figlio.
A proposito, sapete da cosa si capisce se un libro è scritto da una femmina, o meglio quando si tratta di tipica letteratura al femminile? Fin dalle prime pagine – ciò è matematico –, troverete una sfilza di “voglio” (“Voglio il mio giugno al Circeo, voglio il mio diritto a cercare di ricostruire la mia vita, voglio il mio diritto a stare seduta davanti al mare, sugli scogli piatti e levigati, senza sentire male dappertutto. Voglio il mio diritto a dire: rifiuto tutto quello che è successo, rifiuto la realtà, rifiuto che sia potuto succedere a me. Che stia succedendo a me. Non voglio far pace con quello che è successo. Non voglio che sia successo.”). Non profondità, dolore, sgomento esistenziale, umano travaglio, ma capriccio, infantile pianto per la bambola negata.
L’altra caratteristica, che subito fa comprendere di essere al cospetto di un testo scritto più con gli estrogeni che con l’inchiostro, è il fatto che, proprio come accade nella realtà, quando si frequenta una donna, bisogna aspettarsi le cose più assurde – altro che sospensione dell’incredulità! Per esempio, se una è a rischio vita, dopo un raschiamento a cui sono seguite gravissime complicazioni, come una costante perdita di sangue, secondo voi, cosa farà? Ovvio: “Nessuno si murerebbe sul picco della montagna del Circeo, senza wi-fi, senza telefono, senza alcun mezzo per comunicare, a un’ora e mezza da Roma, unica strada per raggiungere la città la Pontina, buia e dissestata. Nessuno. Noi sì. Io, sí”. Ecco, appunto, una donna, a cui non abbiano insegnato che l’esistenza non si piega alla propria volontà, potrebbe.
Insomma, questa è il memoir di una scrittrice quarantenne che, dopo aver abortito due volte, tra i 18 e i 20, si convince di voler avere un figlio. Come sanno bene tutti i portatori sani di pene, quando una si è messa in testa un’idea, che si tratti di avere un figlio o di mangiare sushi alle 3 di mattina, niente la può fermare.
In tutto ciò, Andrea, questo il nome del compagno, è poco più di un personaggio di sfondo in una rappresentazione teatrale in cui lei ha rubato la scena a tutti. Il bello è che, quando la storia ha inizio, la protagonista sembra anche ragionevole e tutto sommato misurata nei suoi confronti: “E anche se Andrea non parla mai del dolore, non lo fa vedere mai, questa volta che soffre lo vedo pure io. Questa è anche la sua storia. Non è solo la storia di una madre. È anche quella di un padre. Sono un’egoista, se penso di essere la protagonista di questo dolore”.
In realtà, subito dopo si capisce quale sia il ruolo di questo povero disgraziato nell’economia della vicenda. In gergo, tra i giovani maschi, si chiama beta provider: “Una sera lo guardo e gli dico: «Se non lo facciamo adesso, non lo facciamo piú. Devi capire se lo vuoi. Se non lo vuoi, mi vedo mio malgrado costretta a lasciarti» (anche questo tipo di donna avevo orrore di diventare, e sono diventata)”. Ciò sia di monito a ogni uomo: quando una vi dice che vuole dei figli e non dei figli da voi, sappiate che per lei siete semplicemente mezzo e non fine. Praticamente, le serve un donatore di sperma, non un marito o compagno che sia. Siete come il kit che alcune si fanno arrivare a casa, con lo sperma surgelato. La sola differenza è che voi dovrete sempre essere disponibili a scarrozzarle, per poi sorbirvi pure le paturnie.
Basti leggere i dolcissimi pensieri che il personaggio egocentrato gli dedica: “In tutto questo iter, prima e dopo, quante volte, durante tutte le torture, mi morderò la lingua per non dire ad Andrea: a me mi torturano, e tu ti sei fatto solo una sega in bagno”. Pensate che gioia fare un figlio con una donna simile!
Una figura, quella di Andrea, che fa proprio pena. Lui, malgrado tutti i problemi e con una simile rompipalle attaccata come una piattola, va a lavorare, anche perché dovranno cercare una casa più grande e mantenerla, qualora dovessero riuscire ad avere dei figli e lei, invece che applaudire il suo impegno, il fatto che dimostri di avere un minimo senso di responsabilità, non fa che pensare il peggio: “Quando, verso le undici, arriva Andrea dal set, lo odio. Perché lui non deve operarsi. Perché lui è un uomo. Perché lui può andare nel mondo e io devo stare chiusa dentro il mio”.
Qui isteria e immaturità regnano sovrane. Prima, la candidata a madre dell’anno dice che “Ogni ragione che ho avuto in tutti questi anni per non mettere al mondo mio figlio, io la maledico”. Poi, le viene in testa che “Il lavoro è la mia preoccupazione più grande. Quella che forse qualcuno potrebbe trovare comprensibile. Ma ne ho anche un’altra: i viaggi. Io amo viaggiare. È la cosa che amo di più dopo la scrittura. Come farei a continuare a viaggiare se fossero due gemelli? E anche se fosse uno solo?”. Magari una, prima di fare determinate scelte, valuta i pro e i contro, soppesa le proprie priorità e, se non è una squilibrata, capisce che, banalmente, nella vita non si può avere tutto. Inutile precisare che, qui, la ragionevolezza manca completamente – in termini freudiani, il Super-Io è stato annegato da un Es che tracima da ogni parte e non conosce alcun senso del limite.
Eppure, questo è forse l’aspetto meno inquietante della psiche turbata che svolge il ruolo di io narrante. In tutto il libro, è palpabile un serio problema nella gestione delle emozioni, giustificato come processo catartico di liberazione. Sentite cosa le passa per il cervello: “Dai che lo rifate», mi ha scritto un’altra persona mentre ero in ospedale e avevo appena perso tutto. Se con la telepatia si potesse uccidere, tu che mi hai scritto quel messaggio saresti morto all’istante”. Ma, direte voi, questo è un sentimento passeggero, uno sfogo di rabbia dettato dalla frustrazione del momento. Non sembrerebbe: “Una donna che non esce più dall’unico pensiero di fare un figlio. Una donna che guarda le donne incinte con invidia. (Sii sincera quando scrivi). Va bene, sono sincera. Io le guardo con odio”.
Nessuno è risparmiato dal suo livore, in tale delirio paranoide, neppure i personaggi di fantasia che compaiono sullo schermo della televisione: “Ieri abbiamo visto una stupida serie tv, io e Andrea. Un carcerato innocente. Va a trovarlo la figlia diciassettenne. È incinta. Si vede questa pancia già grande. Io dico: «Vaffanculo». Andrea: «A chi?» «’Sta stronza». «Ma basta, dai», fa lui. «Non puoi dirlo ogni volta. Non puoi incazzarti ogni volta. Queste sono le cose dei film. Le gravidanze, le morti, gli innamoramenti. Cose cosí». Io sto zitta, la odio e spero che lo perda, quel bambino”. Qui non si tratta neppure di sensazioni controverse. Siamo a livello di quegli squilibrati incel che odiano ogni rappresentante del genere femminile. Questa donna, più che di un ginecologo e della procreazione assistita, avrebbe bisogno di uno psichiatra e di un antipsicotico.
Senza offesa per l’autrice, e sperando che il testo sia solo una gigantesca e iperbolica esagerazione romanzesca, il volume sembra il diario di una psicopatica. Per di più, non è che propriamente brilli quanto a prosa ed immagini (“Io piango, non smetto di piangere quando mi dicono che per ora è andato tutto bene, quell’immagine stampata in testa del cuore di mia figlia che smette di battere è un horror, non è un caso di Un giorno in pretura, è un horror”; “Ogni volta che finisco un capitolo, mentre scrivo in Word, devo selezionare la funzione «Interruzione» e poi cliccare «di pagina». Io ogni volta penso «di gravidanza»”).
Se una donna oggigiorno pensa tutto ciò prima di fare un figlio, il mistero del perché la vita sia una valle di lacrime è presto spiegato. Dopo averlo letto, poco ma sicuro, guarderete in modo diverso alle insolite dolcezze con cui la vostra ragazza cerca di indurvi alla perpetuazione della specie. Forse, la cosa più razionale è mollarla e andare a farsi fare una sega nel più vicino centro massaggi cinese. Di pazzoide esaltato c’è già Putin, ci manca solo il suo corrispettivo femminile.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi. Di recente, ha iniziato a tenere una rubrica su Radio Radio, durante la trasmissione “Affari di libri” di Mariagloria Fontana, intitolata “Il Detonatore”, in cui stronca un testo a settimana.
bravissimo, grande articolo e anche la chiosa finale sul centro massaggi cinese è magistrale: anche che tutta la retorica a favore di queste psicopatiche.