KARIN BOYE, LA SCRITTRICE CHE CI RACCONTÒ, PRIMA DI ORWELL, LA SOCIETÀ DEL CONTROLLO (di Clara Carluccio)
Si fa presto a chiedere più controllo – la tentazione totalitaria è grande e alberga in ognuno di noi. Ci si lascia truffare dalla promessa di una vita in sicurezza, e ci si ritrova a boccheggiare in un carcere di massima sorveglianza, o in un campo di rieducazione, dove, persino i più naturali sentimenti umani, vengono condannati a morte.
Otto anni prima di George Orwell, principale riferimento della letteratura distopica, ci fu lei: Karin Boye, la svedese che – nel 1940 – ha mirabilmente descritto l’annullamento della persona per il bene della materialistica divinità chiamata Stato, nel romanzo Kallocaina – Il siero della verità, la sua ultima e più importante opera, da poco ristampata da Iperborea edizioni.
In un futuro indefinito nel tempo ma chiaro nella sua perversione, si prefigura un Governo Mondiale e un’umanità asservita a esso. L’idolatria dello Stato è l’unica ragione di vita consentita (“Lo Stato è tutto, il singolo niente”). La procreazione non è un desiderio privato ma un dovere, una mera fabbricazione di agglomerati di carne da offrire al sistema, futuri compagni-camerati obbedienti e conformisti (“Intorno a noi vedevamo coppie dividersi non appena la loro nidiata di bambini era pronta per il campo d’infanzia – dividersi e risposarsi per creare nuove nidiate […] non eravamo altro che i compresi e consapevoli esecutori di un solenne rituale sotto gli occhi dello Stato”). Le collaboratrici domestiche sono infiltrazioni delle autorità che controllano e riferiscono eventuali anomalie nella gestione militaresca del nucleo familiare.
Una categoria ferocemente disprezzata è composta dai cosiddetti “divisi”, il quale amore verso il Supremo Stato è solo una condotta di facciata ma, intimamente, nutrono rancore e sofferenza per i sacrifici a loro richiesti. Questi, se venissero a contatto con altri soggetti dubbiosi, potrebbero causare un onda di contagio ideologico che metterebbe a rischio la stabilità del regime. “A morte i divisi”, è il dettame dei sudditi.
Un bravo cittadino accetta stoicamente di annullare se stesso per il Governo (“Spero seriamente di poter dimostrare la mia buona volontà sopportando i più duri esperimenti per il bene dello Stato”). Non a caso esiste il Servizio Sacrificio Volontario, una ramificazione dello Stato che fa uso di cavie umane per test medici.
Per annichilire l’essere umano è necessario fornirgli una ragione fittizia affinché, egli stesso, si prostri a ogni bene superiore senza esitazioni, piegandosi a qualsivoglia comando. Interessante parallelismo con la vicenda Covid in cui, nel nome della sicurezza, sono stati compiuti sacrifici impensabili fino a poco prima: perdita del lavoro, fallimento della propria impresa, segregazione domiciliare – con conseguente esaurimento nervoso -, divieto di avvicinamento, sperimentazione vaccinale. Accade questo quando la comunità viene posta al di sopra dell’individualità.
È in questo scenario che il protagonista del romanzo, Leo Kall, inventa una sostanza chimica che cambierà per sempre l’avvenire dell’uomo: la Kallocaina. La dose che, iniettata ai potenziali cospirazionisti contro lo Stato, induce il sospettato a parlare senza inibizioni, confessando i suoi più reconditi pensieri. Si procede con l’arresto dell’individuo, lo si condanna ai lavori forzati – in certi casi, anche alla pena di morte – sulla base di un reato non ancora commesso ma solo pensato, che spesso corrisponde al semplice essersi figurato una vita oltre la prigione dei doveri imposti dall’alto. Lo stesso principio del Sistema precrimine descritto nel racconto di Philip Dick, Rapporto di minoranza (2002).
I sentimenti vanno schiacciati in quanto elementi antisociali. Una società totalitaria odia ogni genere di emozione individuale perché allontana dalla dimensione collettiva. La Kallocaina serve proprio a identificare i soggetti con queste pulsioni e a isolarle. Un eccessivo attaccamento tra singoli, dunque anche l’amore che va oltre la finalità riproduttiva e la genitorialità intesa come desiderio di proprietà sui propri figli, è ciò che può spezzare il legame più importante, quello con lo Stato, e va impedito. L’essere umano, dice Leo Kall, “non è che un concetto biologico”. I bambini, restano con i genitori solo pochi anni, poi, vengono consegnati alla macchina statale, interrompendo per sempre il rapporto con la famiglia di origine, in una sorta di traumatica agoghé spartana. Come non ricordare Valentina Nappi, la pornostar tricolore, quando belò il suo “I figli sono dello Stato” – probabilmente, senza nemmeno sapere che stava citando la Boye e Il mondo nuovo di Huxley –, come un famoso partito dell’arco costituzionale chiedeva l’asilo obbligatorio al fine di indottrinare prima e con più efficacia gli italiani.
Leo Kall prenderà coscienza – da bravo conformista, solo dopo un coinvolgimento personale – di come la Kallocaina, in mano alla società del controllo da lui stesso sostenuta, possa rivelarsi un irreversibile strumento di tirannia. L’autrice sembra prefigurare quello che sarà poi lo psicoreato già posto come base in 1984 di Orwell. Il dominio si ritorce contro chi lo ha voluto: “La sorveglianza si è fatta sempre più severa – e questo non ci ha reso più sicuri, come speravamo, ma piuttosto più angosciati”.
Diversi sono stati gli scrittori, e comuni cittadini, che hanno cercato di ammonire l’umanità sui rischi che si corre ad affidarsi ciecamente allo Stato o a qualsiasi sovrastruttura che prometta sicurezza. Ne hanno ricavato solo un’accusa di complottismo – quanto è pericolosa la vicinanza tra società del controllo immaginata e quella reale, ogni volta che compare un pass?
Fin dove si spingeranno, la prossima volta, in nome della sicurezza, non è dato saperlo. Basti considerare società quale quella cinese, o la nord coreana. Per capire, invece, quanto ci si possa pentire di una simile scelta, si deve leggere Kallocaina.
Clara Carluccio