GIUSEPPE IMBROGNO, “QUELLO CHE ABBIAMO VISSUTO”: BEL ROMANZO, TEMATICHE ATTUALISSIME, MA LA LUNGHEZZA È DAVVERO ECCESSIVA (di Clara Carluccio)
Nel lungo ed estenuante tentativo di avere un figlio, Alberto e Cristina iniziano il cammino verso la putrefazione del loro rapporto. Un meccanismo pietoso e irreversibile a cui, i protagonisti, non vogliono sottrarsi.
Per diventare tre si passa dal due, eppure, la mancanza di un bambino – che sarebbe l’elemento aggiuntivo -, è capace di sbriciolare le fondamenta stesse della coppia, separando papà e mamma ancor prima di esistere.
È il paradosso che conosciamo e che Giuseppe Imbrogno, nel suo Quello che abbiamo vissuto, descrive minuziosamente.
Nel romanzo sono disseminati specialisti di ogni genere: ginecologi, psicoterapeuti, medici alternativi, quasi a dover riempire il vuoto di un amore ormai rarefatto e di questo bambino che non arriva ma che, alla fine, si materializza quando è troppo tardi: “Il figlio che si annunciava a quell’uomo e a quella donna era stato desiderato da persone diverse, da una coppia diversa e aver desiderato una cosa in un determinato tempo non necessariamente ti porta a essere felice quando poi la ottieni in un tempo diverso.”
A trentasette anni lei, quarantuno lui, dopo una “meticolosa distruzione della propria intesa sessuale” fatta di rapporti programmati e la sigaretta del dopo sesso rimpiazzata da esami del sangue, ovuli e spermatozoi, non rimane che guardarsi a vicenda sapendo di non aver adempiuto alla funzionalità riproduttiva. Un ripudio che non svanisce neanche all’arrivo della prole perché, ormai, la coppia è morta.
Due persone tenute unite solo da un tenero quanto piagnucoloso e, a volte insopportabile, collante di nome Giulio, il poppante che doveva arrivare prima. Inizia il conflitto tra i due protagonisti, con recriminazioni e colpi bassi per prendere punti agli occhi del figlio, e di se stessi.
Nel romanzo la genitorialitá è descritta onestamente mettendo in luce le difficoltà di una madre come di un padre – figura, quest’ultima, decisamente bistrattata ai nostri giorni. La donna ne esce in una visione completa, con la sua necessità di riscatto e nuove progettualità dopo la pausa mamma, tutti i problemi che ne derivano e le piccole bastardate caratteriali che la rendono realistica e divertente da leggere: (“Forse la troia aveva fatto tutta questa pantomima solo per avvicinarsi a lui, solo per attirare l’attenzione dell’uomo, a questo pensava Cristina mentre scriveva la dedica ed era così che avrebbe voluto iniziarla, Ciao troia”).
Purtroppo il testo ha come pecca una lunghezza davvero eccessiva, oltre ogni ragionevolezza. Un lettore che presta la sua attenzione a un libro di cinquecento pagine, si aspetta di trovarvi qualcosa di rivelatorio, inedito – o si ha trovato come completare Essere e Tempo di Heidegger, o meglio non allargarsi più del dovuto, visto che 200-250 pagine bastano e avanzano per raccontare il mondo. Tutto ciò che va oltre, il più delle volte genera unicamente un calo della tensione narrativa e un frequente inciampo su dettagli irrilevanti.
In questo caso lo spazio viene occupato da tematiche che, nell’economia del racconto, risultano minoritarie, ma che sono di grande interesse collettivo e meriterebbero più vasti approfondimenti. Ne è un esempio la parte in cui Cristina presenzia agli incontri delle transfemministe, in cui si elimina la parola uomo in modo da “liberare i nostri discorsi, i nostri pensieri” e si invitano le mamme a correggere i figli maschi per “evitare che diventino i predatori di domani”. Veri e propri deliri a cui la protagonista si sottrae più per noia che per rifiuto di un’ideologia che sta, oggigiorno, devastando le relazioni tra i sessi. Forse al personaggio serviva solo un po’ più di coraggio nel denunciare l’assurdità di simili esternazioni. Ovviamente senza cadere in uno stile saggistico non adeguato per un romanzo ma, considerata la lunghezza del testo, si sarebbe potuta dedicare qualche pagina in più, oltre che metterci maggiore pathos e conflittualità, magari sorvolando su dinamiche familiari già note e ampiamente setacciate in precedenza.
Anche l’episodio sanitario di Giulio – la vaccinazione obbligatoria – si risolve forse troppo in fretta, considerato il problema effetti avversi. Essendo la scienza causa prima della peggior spaccatura sociale dei nostri tempi, meriterebbe probabilmente un intero romanzo. Ma, anche in tal caso, l’autore non tralascia nessuna versione e si mostra leale nell’attribuire riconoscimento a più polarità.
Non vi è solo la metamorfosi di una coppia sposata, ma anche il legame amicale rappresentato da Mario che, per Alberto, ha costituito un’importante figura di riferimento – soprattutto durante la loro militanza ai tempi di Genova 2001: (“Non fosse stato per Mario, chissà cosa sarebbe stato di lui, ci sarebbe rimasto secco”). I due si rincontrano condividendo la stessa esperienza di crescita in un’isolata località di montagna insieme ai rispettivi figli ma, qualcosa, dopo vent’anni, è cambiato anche tra loro.
Una storia su quello che desideriamo e su quello che ci accade in realtà, sulla trasmutazione della propria vita, delle priorità, finanche della parte più profonda di noi. Una storia umana.
Clara Carluccio