UNA STORIA DEL DOPOGUERRA: “DOVE QUALCOSA MANCA” DI FRANCESCA ZANETTE (di Clara Carluccio)
Caterina è nel suo negozio, immersa nella benevola routine dolorosamente raggiunta dopo gli anni della guerra. Fuori piove. Entra un uomo, un bell’uomo. In apparenza, un cliente qualunque. Poi, la memoria: «Sei tu?» «Sono tornato»”. Un colpo che paralizza la donna. Non è solo una persona a riapparire, bensì un’epoca infelice che viene riesumata con tutte le sue tribolazioni, le sue lotte, le sue perdite.
Nasce, dalla mente di Francesca Zanette, Dove qualcosa manca, edito da Readerforblind. Si tratta di una storia che corre parallelamente tra l’anno 1958 e il 1944, in cui passato e presente si alternano di capitolo in capitolo.
Le formule dialettali – robe da oméni, discorsi da femene, il tempo xe un diavolasso – distribuite con parsimonia, per non cadere in una clownerie provinciale, non lasciano dubbi sulla località in cui si svolge la storia. Siamo in Veneto, negli anni successivi al Secondo Conflitto Mondiale.
Matthias Rubl, l’uomo del passato dagli “occhi azzurrissimi”, è un ex membro delle forze armate tedesche e la sua presenza in paese non si può certo dire che risulti gradita. Soprattutto per Pietro, il marito di Caterina che, quella mattina di mal tempo, quasi presagendo l’imminente scandalo, dice: “ancora non piove, ma l’aria sa di guai”.
Più che armi da fuoco, in quel momento Matthias imbraccia la sua macchina fotografica e passa il tempo contemplando paesaggi ma, questo cambiamento, non basta a far dimenticare quanto accaduto. Troppo poco tempo è trascorso e gli abitanti del luogo non possono ancora perdonare (“In paese, quasi tutti hanno avuto un morto in casa per mano dei tedeschi”). Inoltre, lo stesso personaggio ha dato a sua volta buone ragioni per essere odiato, insieme a tutta la sua categoria: “la foto di un cornuto italiano servire per il giornale tedesco», replicò Matthias”.
Caterina non lascia trapelare niente del suo pensiero o del suo vissuto, ha un temperamento calmo, controllato, come dicono di lei: “non le vengono i calori nemmeno l’invitasse a cena Mastroianni”. Eppure, alla vista di quello straniero, rimane turbata. Difende un segreto con la fermezza e l’onore di chi non tradirà mai un giuramento. Questo la riveste di mistero, curiosità ma anche di pettegolezzi e antipatie (“so bene che mi credono una strega”).
L’autrice replica in modo veritiero lo stile di vita e la mentalità dell’epoca, senza che il testo possa prestarsi a rivisitazioni che lo ridiscutano secondo categorie attuali, magari per tirare in ballo polemiche ascrivibili unicamente al nostro tempo. Il tono adottato è ironico e aiuta a empatizzare con i personaggi (“Enza si allungò per prendere le forbici. «Certo, non sei nel comitato pie donne», tirava il braccio, tirava le dita. «Anche perché…», riuscì ad afferrarle. «…ti apprezzano i loro mariti, sì o no?», e nel ricadere sulla sedia diede una gomitata a Raffaella, facendole perdere il punto d’ingresso dell’ago”).
Esilarante il personaggio di Don Fulvio, il prete del paese con “la lingua consumata, a forza di benedizioni”. Sempre presente per le pecore del suo ovile, anche a costo di interrompere le orazioni in latino per dare udienza alla giovane Caterina, quando corre da lui annunciandogli le sue intenzioni di maritarsi: “Questo giovane ha una coscienza timorata?», chiese don Fulvio. Poiché Caterina mostrava di non aver capito, aggiunse: «Tiene le mani a posto?» «Sicuro. Timoratissimo»”. Un parrocco devoto, insomma, ma anche ben preparato su questioni diversamente clericali: “le vie del Signore sono infinite, mentre quelle del demonio sono poche e portano in cabina elettorale».
La condivisione del territorio tra giovani autoctone e uomini d’armi, a lungo andare, fa sorgere inaccettabili mescolanze tra le due polarità: “Emma. Si è messa con un tedesco; è proprio andata via di testa per ’sto qua» […] Non è roba sua quella là: da che mondo e mondo si fa l’amore con uno del proprio paese che ti può volere bene sul serio”.
I momenti di leggerezza si alternano agli inevitabili scenari drammatici di guerra, tra ragazze staffette, partigiani, rastrellamenti, case date alle fiamme, l’orrore: “che la guerra finisse o meno, non gli importava. Tutta quella fatica per cercare di uscirne vivi: ma per cosa? Alla morte ci aveva fatto l’abitudine. Lei era nelle persone, nei boschi e nei vestiti, persino nella gavetta dentro cui mangiava, che era stata di un partigiano impiccato a un lampione. Lei era l’unica che lo capisse, che gli tendeva la mano con parole di conforto; lo consolava sapere che poteva sceglierla in ogni momento”.
“Le cose non hanno da cambiare, quando filano dritte” dice Elio, un altro personaggio del racconto. Ma, allora, perché il tedesco è tornato? Il mistero si rivelerà soltanto nel finale e sarà traumatico, come tutto ciò che è ruotato attorno alla vicenda personale di quegli oscuri personaggi di un’Italia che fu.
Clara Carluccio