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“VEDERCI CHIARO”, IL ROMANZO DI CHRIS MARKER, IL PIÙ CELEBRE DEGLI SCONOSCIUTI (di Marco Pianti)

Non c’è bisogno di leggere tutte le uscite editoriali dell’anno per decretare che Vederci Chiaro di Chris Marker, pubblicato per la prima volta in Italia, a settant’anni dalla sua uscita in Francia, da Michelle Müller, di “Libreria Libri Necessari” (Stampato da “Emiliano degli Orfini”), è la proposta migliore sul mercato nel 2022. Stampato in Francia nel 1950, con il titolo Le coeur net (Ed. Du Seuil), il romanzo è ambientato in Indocina, nel 1949, e i suoi protagonisti sono piloti e funzionari di un servizio aeropostale trans pacifico. 

Chris Marker, Vederci chiaro, Emiliano degli Orfini – Roma.

Chris Marker, nom de plume di Christian François Bouche-Villeneuve (Neuilly-sur-Seine, 29 luglio 1921 – Parigi, 29 luglio 2012), studia Filosofia seguendo i corsi di Jean-Paul Sartre. Dopo aver conseguito la laurea si unisce alla Resistenza, come paracadutista. In seguito lavora per l’UNESCO e ha perciò modo di viaggiare. Al principio degli anni cinquanta, inizia la sua carriera cinematografica. Alcuni dei suoi lavori più celebri, realizzati in forma di documentario, propongono paesaggi esotici accompagnati da riflessioni filosofiche, mormorate in sottofondo, non come didascalia, ma come parte integrante dell’opera, che assume così un carattere onirico. “Saggi Cinematografici”, come li ha definiti André Bazin (Angers, 18 aprile 1918 – Nogent-sur-Marne, 11 novembre 1958). 

C’è un celebre fotogramma, nel suo film più noto, il cortometraggio La Jetée, del 1962, in cui il protagonista arriva finalmente al centro del suo ricordo più caro, divenuto con il tempo un’ossessione, e scopre il suo destino, che così si compie, fatalmente. Davos Hanich, sulla Jetée, con le braccia larghe rivolte verso il cielo, una figura obliqua, un istante prima della caduta. Sembra un uomo colpito da un fulmine. L’uomo, protagonista del racconto, accetta il ruolo di cavia, negli esperimenti di un gruppo di scienziati, in un mondo sotterraneo, post apocalittico, per ritrovare un volto, la donna, il suo sorriso. La risoluzione di ogni tensione è custodita nella memoria. In un momento nel tempo. 

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“Più tardi, aveva compreso che l’uomo sviluppa una forza proporzionale alla prova che si trova a dover affrontare e che la paura stessa reca una certa pace, una sospensione di tutti i sensi, che scaturisce da sé come lacrime o come brividi, per proteggerlo”. Questo spinge, invece, Delso, protagonista di Vederci Chiaro, al volo. Un altro esperimento, un’altra sala operatoria, ma ad alta quota, alla velocità di un razzo, dove è più facile riordinare i ricordi e, di fronte a un pericolo mortale, finalmente distendersi, abbandonarsi alla memoria, intonare blues iperuranici. 

La prosa di Chris Marker appare simultaneamente barocca e scarna, i rari dialoghi sono l’occasione per sviscerare temi assoluti: la fede e tutte le sue declinazioni, la disperazione, l’insonnia e la paralisi, mentre il resto della narrazione propone un tempo sospeso e subordinato all’esito del cataclisma, la tempesta, che avvolge i gesti e li circonda di un lessico essenziale, costante allusione o testimonianza di un destino comune, la morte. 

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La commedia inscenata rievoca la frase di Pessoa “Mi osservo osservare fuori dalla finestra”. In ogni gesto, o pensiero, infatti, si produce una frattura irrimediabile tra gli attori e le proprie azioni e parole, che vengono osservate da una distanza alienante (“Tra gli occhi e le cose rimaneva un vuoto”). Un vuoto. Tra la formulazione di una parola, di un pensiero, tra l’atto e gli effetti che ne conseguono. Un vuoto in cui ogni personaggio ha modo di collocare la propria angoscia, prodotta da legami sottili, fragilissimi, tenuti insieme dalla memoria, come simulacro di qualcosa che è stato (“Aveva fatto il suo ingresso in quella grande e fredda zona, dove il sangue si secca e il ricordo si solidifica come una statua di ghiaccio, diventando memoria”), ed è ora trasfigurato, e qualcosa che sarà: un destino comune, presente nella coscienza come un ricordo. Del passato, del futuro, poco importa.

 Il tempo è la sostanza di ogni cosa, e si mescola, passato e futuro si legano e possono essere osservati come soluzioni chimiche che si attraggono o si respingono. In fondo, ciò che lega le vicende dei protagonisti del romanzo, e facilita il ritmo della narrazione, lo svolgersi, o meglio il farsi e disfarsi degli eventi, è un prodigio. Il volo cieco e folle di Delso “Solo, nella tempesta…”. Un volo che tiene con il fiato sospeso (o mozzato, esanime, appena percettibile) e costringe a rivolgere lo sguardo al cielo. Ma, ancora una volta, il cielo è uno stagno torbido in cui i ricordi si depositano come cadaveri di cavalieri celtici (“In quella grande e fredda zona..”). E i ricordi hanno gli occhi, come il buio, e sono armati.

Marco Pianti

Per contattare l’autore: marco_pianti@yahoo.com

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