ROMAIN GARY, TRA PACE, MEMORIA E SERENITÀ (di Davide Cavaliere)
«Alla memoria». Così si legge in esergo all’ultimo romanzo di Romain Gary, Gli aquiloni, pubblicato nel 1980, pochi mesi prima del suicidio del suo autore, sparatosi alla tempia dopo essersi avvolto in una vestaglia rosso vermiglio, affinché il sangue non turbasse troppo coloro che lo avrebbero rinvenuto.
Il protagonista del libro è Ludovic, chiamato da tutti «Ludo», un ragazzino normanno che viene adottato, avendo perso i genitori, da uno zio, Ambroise, eroe della prima guerra mondiale, uscito però traumatizzato dal conflitto.
Ambroise possiede una bislacca passione: quella per gli aquiloni, che costruisce e conserva con amore paterno. Solo, oppure circondato da un capannello di bambini, amatori e semplici curiosi, fa librare sui cieli del villaggio di Cléry i suoi aquiloni dalle fattezze di Rousseau, di Montesquieu, di Voltaire o di Carlo Magno.
Gli aquiloni sono, per Gary, una metafora dell’essere umano, infatti, all’uomo come all’aquilone «gli ci vuole altezza, spazio libero e molto cielo attorno per sbocciare in tutta la sua bellezza». Un’idea, questa, che l’autore aveva già espresso in un romanzo precedente, Le radici del cielo, sostenendo che «a partire dal momento in cui sopprimi nell’uomo la parte di poesia, la parte di immaginazione, ti resta solo della carnaccia».
Non solo Ambroise, anche il nipote Ludo è noto a tutti per una stranezza, che nel suo caso è una memoria prodigiosa, che gli permette di lanciarsi in vertiginosi calcoli mentali o di imparare a memoria lunghe serie di cifre. Il ragazzo è destinato a incontrare Lila, figlia di Stanislas de Bronicki, esponente di una delle più antiche, ma disastrosamente in rovina, famiglie dell’aristocrazia polacca.
Ludo, a causa della sua memoria, non potrà mai dimenticare Lila, che sarà per lui una presenza costante, un’immagine vividissima prodotta dalla sua anomala memoria («Tre o quattro anni dopo il nostro incontro, mi capitava ancora, al tempo delle prime fragole, di riempire il cestino e, sdraiato sotto i faggi, con le mani dietro alla nuca, chiudere gli occhi per incoraggiarla a farmi una sorpresa»).
I due si rivedranno ancora, si ameranno, ma saranno repentinamente separati dalla Seconda guerra mondiale. Lei dispersa in Polonia, lui membro della resistenza nella sua amata Normandia. La memoria di Lila («viene quasi sempre in mio soccorso nei peggiori momenti di scoramento e stanchezza. Allora mi basta vedere il suo viso esausto e le sue labbra pallide per ricordarmi che da un capo all’altro dell’Europa c’è la stessa lotta, lo stesso sforzo insensato») e della Francia prima della guerra permetteranno a Ludo di non abbandonarsi mai alla disperazione, nemmeno quando lo zio sarà deportato nei campi nazisti per essere accorso in aiuto, armato solo dei suoi aquiloni, dei bambini ebrei di Le Chambon-sur-Lignon.
Ricordare, conservare nella memoria, significa «non perdere la propria ragione di vita», rimanere degni e fedeli a ciò che si ama, che sia una donna o un ideale. Il professor Pinder dice a Ludovic: «La Francia, quando tornerà, avrà bisogno non soltanto di tutta la nostra immaginazione, ma anche di molto immaginario. Così, questa ragazza che hai continuato a immaginare con tanto fervore per tre anni, quando la ritroverai… Dovrai continuare a inventarla con tutte le tue forze. Sarà sicuramente molto diversa da quella che conoscevi».
Anche Monsieur Duprat, proprietario del ristorante di lusso Clos Joli, vive della memoria della vecchia Francia, e seguita a servire i migliori piatti della cucina nazionale agli ufficiali tedeschi perché «è rimasto fortemente traumatizzato dalla sconfitta, dal crollo di tutto quello in cui credeva, e si è dedicato anima e corpo a ciò che rimane». Ludo e Duprat non sono gli unici, un altro vive come loro di memoria, ed è nientemeno che Charles De Gaulle a Londra.
La guerra giunge al termine. Ludo è con Lila, che gli è rimasta fedele nonostante sia stata costretta, dalla miseria, a conoscere numerosi uomini. I vincitori non si dimostrano migliori dei vinti, tra fucilazioni e capelli rasati. I «resistenti» dell’ultimo minuto, così come gli opportunisti, sono ovunque, ma nemmeno questo scalfisce la gioia della pace ritrovata. Come ha scritto Luca De Angelis su Pagine Ebraiche, «è il romanzo di un cuore stanco ma pacificato, di uno splendore tutto umano. Uno dei più belli. Uno dei più sereni». Un romanzo da leggere.
Davide Cavaliere
L’AUTORE
DAVIDE CAVALIERE è nato a Cuneo, nel 1995. Si è laureato all’Università di Torino. Scrive per le testate online “Caratteri Liberi” e “Corriere Israelitico”. Alcuni suoi interventi sono apparsi anche su “L’Informale” e “Italia-Israele Today”. È fondatore, con Matteo Fais e Franco Marino, del giornale online “Il Detonatore”.