“CASA FATTA DI ALBA”: SCOTT MOMADAY E I NATIVI AMERICANI (di Marco Pianti)
Il lirismo isterico ed estenuante di Scott Momaday rappresenta il primo ostacolo nella lettura di Casa fatta di alba (Edizioni Black Coffee), libro che valse all’autore il premio Pulitzer. Le prime settanta pagine del romanzo sono, a voler essere cortesi, un affresco maniacale di un paesaggio totale, all’interno del quale convivono creature visibili ed invisibili, una divisione essenziale tra gli elementi che compongono la Realtà, ovvero la sovrapposizione di forme doppie, per metà terrestri e per metà divine, testimoni e tutrici dell’ignoto. Momaday, autore perfettamente inserito nel panorama culturale americano, scrive, a detta sua, per recuperare e conservare le tradizioni narrative dei Nativi Americani. La sua opera, però, propone un argomento universale: il ritorno del guerriero.
Il protagonista del romanzo, Abel, fa ritorno a Jemez Pueblo, villaggio di nativi nel New Mexico, dove convivono cacciatori di Aquile e Sacerdoti Cattolici, dopo aver prestato servizio durante la seconda guerra mondiale. Qui ha luogo il suo tentativo di ripristinare la propria identità, lacerata dalla violenza del conflitto. La guerra che, oltre ad essere un evento traumatico per il protagonista, è anche l’occasione di abbandonare la cultura particolare dei Nativi e scoprire il Mondo Moderno.
Il risultato è un’identità frantumata da ricomporre. Un linguaggio disimparato che si risolve nel silenzio (un tema essenziale, il linguaggio, nella ricostruzione della propria identità, infatti, come sosteneva Emil Cioran, “Non si abita un paese, si abita una lingua”). Abel non riesce più a comunicare con la sua comunità. Questa frattura genera l’angoscia Freudiana alla cui origine c’è lo smarrimento del proprio io.
Sul piano strutturale, il romanzo è diviso in tre parti. Solo l’ultima (Il cantore notturno) riferita in prima persona. Nel corso della narrazione, il silenzio del protagonista viene riempito dalla voce della Natura gravida di segni misteriosi da decifrare. Un linguaggio esoterico accessibile agli uomini in grado di ascoltare il silenzio, capaci di vedere l’invisibile. Abel percorre il sentiero canonico della perdizione in cui il linguaggio sacro della Natura viene sostituito dal lessico blasfemo della città – Los Angeles, nel caso specifico -, dove l’individuo smarrito fa ricorso agli effetti terapeutici dell’alcool e della sensualità per guarire le proprie ferite, per dimenticarle.
Nel documentario Let There Be Light, del 1946, il regista americano John Huston mostra gli effetti della guerra sulla psiche dei soldati. Le immagini sono strazianti: uomini di ogni età, bianchi o neri, mostrano davanti alla telecamera, durante le sedute di analisi organizzate dal governo americano, le devastanti ripercussioni psicologiche. Esplodono in reazioni incontrollate. Il trauma del conflitto facilita il riemergere di antiche offese rimosse e collocate negli abissi della coscienza. Il documentario fu censurato e non vide la luce fino agli anni ’80, quando il pubblico americano, che aveva ormai perduto l’innocenza davanti alle immagini del Vietnam, era ritenuto pronto ad assimilare qualsiasi genere di atrocità.
L’opera di Momaday racconta la catabasi di Abel e di tutti i soldati, testimoni e, al tempo stesso, attori della miseria della guerra e delle sue devastanti conseguenze – irreparabili, o quasi. L’autore, infatti, si avvale di un altro tema arcaico, per chiudere il cerchio della narrazione: la rinascita. Una rinascita che passa attraverso la preghiera che dà il nome al romanzo. Una preghiera che riconcilia l’individuo con la sua comunità. Una preghiera fatta di singhiozzi silenziosi.
Marco Pianti
Per contattare l’autore: marco_pianti@yahoo.com