UNA RIFLESSIONE MASCHILE SU “UNA STANZA SOLO PER SÉ” DI VIRGINIA WOOLF (di Matteo Fais)
La prima cosa, quando si ha a che fare con le donne, è non farsi impietosire. È il loro gioco preferito, la loro arma più affilata. L’avversario ti fotte sempre quando ti convince di poter stare a guardia scoperta di fronte a lui.
Attenzione, non si tratta di maschilismo. Chi considera le femmine come inferiori pensa anche di non aver niente da temere da queste. Si corica al loro fianco, come il marito cornuto di Madame Bovary e ronfa sereno come un mulo.
Se la più grande astuzia del demonio è far credere di non esistere, quella delle donne è dare l’idea di essere deboli, mollicce, plasmabili e manipolabili finanche dal primo sbarbatello che passa. “Ma come”, griderà indignato qualcuno, “si può forse dire che non siano state sottomesse lungo il corso dei secoli?”. Certamente, no. Cionondimeno, come insegna Foucalt, ogni potere genera sacche di resistenza e, come suggerisce l’osservazione del mondo, ogni creatura che versi in una condizione di inferiorità, subordinazione, minoranza, trova una strategia per barcamenarsi, farla franca e restare in vita – tanto per fare un esempio: quanti di voi, durante il periodo della vaccinazione obbligatoria, si sono procurati un green pass fasullo per aggirare i controlli più superficiali? In guerra, come spiega Sartre, non esistono vittime innocenti.
È partendo con questa sana iniezione di cinismo e ripulendosi le lenti degli occhiali dal femminismo imperante che bisogna leggere la ristampa di uno dei massimi capolavori del pensiero estrogeno del ’900, Una stanza solo per sé di Virginia Woolf, in questi giorni riportato nelle librerie da Bompiani, in una nuova traduzione, e giustamente figurante nella collana dei classici contemporanei.
La scrittrice inglese, diciamocelo fuori dai denti, ha il dono di tediare come pochi altri e i suoi saggi, se ridotti alla forma di una pagina di giornale, sarebbero più che bastevoli per sintetizzare un pensiero tutto sommato meno profondo di come facciano credere i mille rivoli in cui lei fa sapientemente smarrire il lettore.
Ma cosa dice il testo in questione? Oltre lo sfoggio culturale – quante vanità la donna condivide con l’uomo! –, il nucleo contenutistico è molto semplice e più volte ribadito: le donne hanno scritto poco, almeno fino a un certo periodo della storia, perché povere o marginali, perché considerate inferiori e fatte crescere entro una tale visione, e soprattutto poiché sprovviste di una stanza solitaria per dedicarsi ai propri pensieri e una rendita annuale a poter loro garantire l’otium litteratum.
Ma che scoperta! Viene quasi da sorridere. In effetti, uno dei peggiori malintesi che induce il confrontarsi con il testo di un genio è pensare che quest’ultimo dica sempre e solo cose geniali. Al contrario, anche la mente più eccelsa spesso sa essere massimamente ottusa e accecata – così come gretta, meschina e ingenerosa. Virginia Woolf, per esempio, è talmente ossessionata dal riparare ai torti patiti dalle donne nei secoli del secoli da non capire che un simile ingrato destino ha riguardato più o meno la maggior parte dell’umanità, senza distinzioni di genere, fino a che, grazie alla democrazia e al miglioramento generale della società, non è stata istituita l’istruzione obbligatoria di massa. Poi, questo è vero, le donne ne hanno risentito ancora di più forse – un’ipotetica sorella di Shakespeare, tanto per citare un suo esempio, avrebbe sicuramente avuto molti più problemi di quanti ne abbia avuti il fratello nel portare avanti una carriera da autrice teatrale.
Insomma, il grande difetto del discorso contenuto nel saggio è lo stesso che grava su ogni asserzione di stampo femminista: tutto viene ridotto a una questione sessuale. Eppure, è la Woolf stessa a rendersi conto che il principale problema è dipeso da una faccenda di ordine materiale: nel suo caso, avere 500 sterline all’anno per essere sollevati dall’incombenza del sostentamento. Per farla semplice, chiunque abbia i soldi è una persona rispettabile e, come dice la famosa barzelletta, se hai gli sghei, sei gay, altrimenti tutti ti daranno del ricchione.
Insomma, la scrittrice manca il bersaglio, individua una persona quando dovrebbe scorgere una folla, parte dal genitale senza arrivare al generale. Va comunque letta per capire il grande abbaglio del femminismo: una stanza solo per sé serve a chiunque voglia esistere come individuo, non solo alle donne, ma purtroppo è stata negata a quasi tutta l’umanità.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.
Analisi interessante e attendibile. Mio padre faceva l’ operaio edile per dieci ore al giorno,fosse stato meno indottrinato dal mood di quel periodo ( dovere, famiglia , oneri e sacrifici) avrebbe mandato a cagare mia madre casalinga e noi figli un po’ teste di cazzo per sbronzarsi al bar o dedicarsi a se stesso, ma ormai è andata.