UN NOBEL PER LA LETTERATURA NON DEL TUTTO INGIUSTIFICATO (di Matteo Fais)
Interessante motivazione quella con cui l’Accademia di Svezia ha conferito il Nobel per la Letteratura ad Annie Ernaux: “per il coraggio e l’acutezza clinica con cui scopre le radici, gli estraniamenti e i freni collettivi della memoria personale”. In effetti, oggi, molti partono dall’autobiografismo – tra gli addetti ai lavori, si dice “autofiction” – senza però giungere all’universale.
Lei c’è riuscita? In buona parte, ma senza eccellere. Sicuramente aveva buone raccomandazioni, essendo stata sessantottina ed essendo femminista. Anche le sue stupidissime dichiarazioni, tipo “Non farei mai l’amore con un fascista, ma neanche con un uomo di destra moderata”, devono aver aiutato. Ma meglio lasciare da parte le malignità, ogni tanto, per concentrarsi sull’opera, per esempio L’evento che, in Francia è pubblicata da Gallimard – mica uno qualsiasi – e, in Italia, da L’orma Editore – bravi, avete dimostrato di non essere degli improvvisati!
Il brevissimo romanzo – si legge in un’ora, ma scuote l’animo per giorni – parla di aborto, esperienza razionalmente da difendere con le unghie e con i denti, ma emotivamente straziante. Il paragone con la superlativa Oriana Fallaci è d’obbligo come il ritorno alla coscienza dopo uno schiaffo.
No, L’evento non può tenere testa a Lettera a un bambino mai nato. L’Oriana Nazionale non è una scrittrice, ma una giornalista – come dire che non è un lottatore professionista ma un picchiatore da strada. La Ernaux ti ci porta, la Fallaci ti ci scaraventa. “Sono scesa a Barbès. Come l’ultima volta, sotto il binario della metropolitana sopraelevata c’erano gruppetti di uomini in attesa”, così inizia la francese e bisogna attendere qualche pagina perché compaiano le frasi toccanti, strappalacrime, quelle da sottolineare. L’italiana ti salta alla gola, ti bracca, non c’è scampo: “Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla. Me ne stavo con gli occhi spalancati nel buio e d’un tratto, in quel buio, s’è acceso un lampo di certezza: sì, c’eri. Esistevi. È stato come sentirsi colpire in petto da una fucilata”. La questione è semplice: una è una donna, l’altra un dannata bestia infernale senza alcuna pietà – neanche verso sé stessa.
Un discreto libro, a ogni modo, quello della Ernaux. Agghiacciante pensare a quel tempo in cui la Francia, patria del progressismo – oramai il più becero –, era come noi o peggio, in cui una ragazza doveva ancora rivolgersi alle mammane per abortire. L’angoscia, nella narrazione, è materia viva, particolare che diventa sgomento, straniamento che ingiotte l’anima: “Continuavo a rivedere la stessa scena sfocata, di un sabato o una domenica di luglio, i movimenti dell’amore, l’eiaculazione […] L’avvilupparsi e il gesticolare dei corpi nudi mi parevano una danza di morte […] Eppure non riuscivo a stabilire una relazione tra tutto ciò, i gesti, il tepore della pelle, dello sperma, e il fatto di essere là”.
Anche per il peggior reazionario, al di là dello stile comunque pregevole, è effettivamente difficile non solidarizzare con la povera protagonista – tanto quanto criticare l’irresponsabilità delle donne di oggi – per cui “I mesi successivi sono bagnati da una luce di limbo. Mi vedo per strada a camminare senza sosta”. Non essere liberi di poter scegliere se non l’illegalità, al netto di ciò che gli altri possono pensare di noi, è pur sempre un abominio, una violenza bella e buona alla natura dell’essere umano. E ha ragione l’autrice a scrivere “la clandestinità in cui ho vissuto quest’esperienza dell’aborto appartenga al passato non mi sembra un motivo valido per lasciarla sepolta. Tanto più che il paradosso di una legge giusta è quasi sempre quello di obbligare a tacere le vittime di un tempo, con la scusa che «le cose sono cambiate»”. Insomma, non è un caso che nessuno, neppure la Meloni, voglia intervenire a correggere la legislazione sull’interruzione di gravidanza.
Che poi la Ernaux sia abile nel raccontare i rapporti di forza tra le classi, come hanno detto, è vero solo fino a un certo punto e, certamente, non nel libro in questione: “Stabilivo confusamente un legame tra la mia classe sociale d’origine e quello che mi stava succedendo. Prima a fare studi superiori in una famiglia di operai e piccoli commercianti, ero scampata alla fabbrica e al bancone. Ma né il diploma né tutti gli esami dati a lettere erano riusciti a ostacolare la fatale trasmissione di una miseria di cui la ragazza incinta era, alla stregua dell’alcolizzato, l’emblema. Mi ero fatta fregare all’ultimo dagli ardori, e ciò che cresceva in me era, in un certo senso, il fallimento sociale”.
Se una forza e un richiamo universale vi sono nel romanzo, stanno tutte nella descrizione dell’inquietudine del personaggio principale. Al netto dell’insofferenza tipicamente femminista verso i maschi, è difficile dubitare dell’atteggiamento malsano riservatole dai sostenitori dell’emancipazione al tempo: “Militava in un’associazione semiclandestina che lottava per la libertà di contraccezione, Planning Familial, dalla quale forse mi aspettavo un qualche tipo di supporto. Appena ha capito gli è venuta un’espressione di curiosità e godimento, come se mi stesse immaginando con le gambe spalancate, il sesso esposto e offerto. Forse traeva un intimo piacere da quella mia improvvisa trasformazione da studentessa diligente a ragazza in difficoltà”; “T. Mi ha cinta tra le braccia, ha detto che avevamo il tempo di fare l’amore. Mi sono divincolata e ho continuato a lavare le stoviglie. Il bambino piangeva nella camera accanto, mi veniva da vomitare. Jean T. mi premeva da dietro mentre asciugava i piatti […] Non reputavo che Jean T. mi avesse trattata con disprezzo. Per lui avevo cambiato categoria, ero passata dalle ragazze di cui si ignora la disponibilità sessuale a quelle che, senza alcun dubbio, avevano già fatto l’amore. In un’epoca in cui questa distinzione contava moltissimo, e condizionava l’atteggiamento dei ragazzi nei confronti delle ragazze, aveva essenzialmente dato prova di pragmatismo, per di più con la garanzia di non potermi mettere incinta perché lo ero già”.
Certo, L’evento è un libro femminista di quelli usciti fuori tempo massimo. La pubblicazione originale dovrebbe essere del 2000 quando, insomma, i giochi erano già fatti e tutto ampiamente sistemato. Niente a che vedere con quello della Fallaci, con cui Oriana sfidò veramente i tempi e la mentalità imperante del periodo. Se Ernaux dice che con quell’atto “ho ucciso mia madre”, Oriana aveva già tirato il collo al patriarcato.
Cionondimeno, la questione di fondo resta valida adesso come allora e funge da monito, come ogni spaventosa storia di ciò che è il nostro passato – tutto ciò che è stato è, infondo, un colossale errore e orrore: “E, come al solito, era impossibile determinare se l’aborto era proibito perché era un male o se era un male perché era proibito. Si giudicava in base alla legge, non si giudicava la legge”.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.