“STALINGRADO”, LA TRASCINANTE EPOPEA NOVECENTESCA DI GROSSMAN (di Davide Cavaliere)
«Il fascismo voleva sottomettere la vita umana a leggi che per la loro uniformità assurda, crudele e senz’anima somigliavano a quelle che regolano la parte morta, inanimata della natura: le stratificazioni di sedimenti sul fondo del mare, l’erosione delle montagne per opera dell’acqua e delle variazioni termiche. Il fascismo voleva rendere schiave la mente, l’anima, la fatica, la volontà e le azioni degli uomini, che aveva ridotto a pietre e minerali»: così pensa il commissario politico Krymov, in Stalingrado, e così riteneva l’autore, Vasilij Grossman, mentre iniziava a rendersi conto che tale definizione si adattava perfettamente anche al comunismo.
In Stalingrado, pubblicato per la prima volta nel 1952 con il titolo Za pravoe delo, ossia Per una giusta causa, c’è una traccia appena accennata delle dirompenti riflessioni sul totalitarismo contenute nel suo seguito, il celebre Vita e destino che, al momento del suo sequestro, nella casa di un Grossman malato, fece dire al tetro custode dell’ideologia leninista Suslov, «ci vorranno cento anni prima che queste pagine appaiano». Per nostra fortuna, Grossman aveva nascosto una copia del romanzo in un armadio dall’amico Semyon Lipkin, a Malojaroslavec, che lo contrabbandò all’estero sotto forma di microfilm. Ai dirigenti sovietici venne un colpo quando videro il libro alla fiera di Francoforte.
Stalingrado, dunque, è strettamente legato a Vita e destino, rappresenta la prima parte della più maestosa dilogia che sia mai stata scritta. Sebbene non raggiunga lo spessore morale e politico del secondo tomo, la densità narrativa rimane inalterata. In pagine magnifiche di colta umanità, i lettori di Grossman trovano (o ritrovano) i tormenti coniugali dell’indolente Viktor Štrum («La fase in cui era entrato, però, era anche quella in cui gli scossoni della vita aiutano a capire che la vicinanza quotidiana e un’abitudine vecchia di anni sono quanto di significativo e poetico – nel senso autentico e sommo del termine – tiene insieme due persone che hanno camminato l’una accanto all’altra dalla giovinezza ai capelli bianchi»), l’amore materno Ljudmila Nikolaevna Šapošnikov per il giovane Tolja («Lei lo amava perché non era bello, perché aveva le orecchie grandi, perché camminava come una papera ed era goffo, e lo amava perché era timido») e la saggezza di Sof’ja Osipova Levinton («Sono un chirurgo e posso dirti che c’è una sola verità, non due. Quando taglio la gamba a un soldato, non conosco due verità. Se cominciamo a far finta che esistano due verità siamo nei guai»).
Il vero protagonista del libro, però, è il secondo cavaliere dell’Apocalisse, ovvero la guerra. Grossman, con la sapiente maestria del testimone, narra il trauma dell’attacco a sorpresa tedesco la tersa mattina del 22 giugno 1941 («Fiamme nere e rosso sangue si gonfiavano arrampicandosi verso il cielo dalle stazioni ferroviarie e dalla massicciata dei binari, la terra era squarciata dai lampi delle esplosioni, e nell’aria tersa intrisa di morte volteggiavano le zanzare nere degli aerei»), il rapido e inarrestabile allargarsi del fronte, la fuga di milioni di persone, civili e militari, lungo le immense steppe della Russia e l’angoscia di chi, tra i marosi umani e la concitazione, ha smarrito i propri familiari. Il tutto avviene mentre, di nascosto, si consuma lo sterminio del popolo ebraico nelle forre ucraine e nelle foreste polacche («il giorno prima il suo aereo aveva di colpo cambiato rotta mentre si avvicinavano a Varsavia sopra pinete e distese gialle di terreno sabbioso. Forster aveva fatto in tempo a notare la riga sottile di un binario unico che fra due muri di pini arrivava a uno spazio dove, in mezzo a tavole di legno, mattoni e calce, brulicava qualche centinaio di persone»).
L’imponente avanzata tedesca è destinata ad arrestarsi presso la città di Stalingrado (oggi Volgograd), disperato bastione sovietico, il cui sfondamento avrebbe permesso al Terzo Reich di abbeverarsi ai pozzi di petrolio del Caucaso. L’attacco nazista è spietato e titanico, latore di infiniti dolori: «La sofferenza umana! Se ne sarebbero ricordati, nei secoli a venire? Perché le pietre degli enormi palazzi e la gloria dei generali restano, ma la sofferenza no; la sofferenza è fatta di lacrime e sussurri, di ultimi respiri e del rantolo di chi muore, di grida di disperazione e di dolore, ma scompare senza lasciare traccia, insieme al fumo e alla polvere che il vento disperde nella steppa». L’opera vuole essere un tributo a quanti sono scomparsi per sempre, inghiottiti dalla lotta e sommersi dalla polvere.
Grossman ritorna più volte sul tema dei danni irreparabili inflitti dal conflitto. Milioni di uomini, con le loro speranze e i loro affetti, cancellati per sempre dall’esistenza, espulsi dalla vita per mezzo di una scheggia o di una sventagliata di mitra. Interi mondi e stili di vita stravolti dalla guerra aerea e dall’avanzata dei Panzer.
La guerra totale, la più estrema delle esperienze, rivela la reale tempra del singolo. Tra le cannonate e i voli omicidi dei Messerschmitt, avviene la metamorfosi e il ragazzo impacciato diventa un efficiente artigliere, il disertore mandato in prima linea combatte con le unghie e con i denti, il lavativo sgobba senza sosta, il profittatore condivide la razione di cibo. Poi, appaiono anche le nature superiori, quelli «che non cambiano nemmeno nell’ora delle prove supreme; le loro voci tranquille, la loro severità e benevolenza, la loro lucidità, le piccole manie e le leggi fondanti del loro spirito, i loro gesti e i loro sorrisi restano tali e quali nella quiete e nella tempesta».
L’autore, grande amante di Čechov, non mette in scena solo la vita dei militari al fronte e nelle furerie, ma anche quella dei minatori e degli operai sugli Urali, degli scienziati e dei vecchi rivoluzionari, degli orfani e degli stessi tedeschi, Hitler e Himmler compresi. Si sofferma anche sui volti dei soldati tedeschi, sulle loro motivazioni, e cerca la spiegazione della loro brutalità attraverso una disamina dell’ideologia nazista. Questa caratteristica rende Stalingrado un grande affresco, un Giudizio Universale letterario.
Sebbene non riesca a evitare una certa dose di retorica sovietica, «omaggio» obbligatorio al realismo socialista, Stalingrado rimane una potente e trascinante epopea novecentesca, collocabile poco al di sotto dell’immortale seguito. Il romanzo di Grossman, capace di far battere il cuore, merita di essere letto tanto come testimonianza quanto come rappresentazione della condizione umana nei momenti di massima tensione storica. Il nostro tempo, difficilmente saprà produrre opere così vibranti di vita e di coraggio, nonostante la presenza della morte, oscura e profonda come, per usare le parole dell’indimenticabile Štrum, «una tomba aperta, spalancata».
Davide Cavaliere
L’AUTORE
DAVIDE CAVALIERE è nato a Cuneo, nel 1995. Si è laureato all’Università di Torino. Scrive per le testate online “Caratteri Liberi” e “Corriere Israelitico”. Alcuni suoi interventi sono apparsi anche su “L’Informale” e “Italia-Israele Today”. È fondatore, con Matteo Fais e Franco Marino, del giornale online “Il Detonatore”.