TORNA IN LIBRERIA DUBUS, IL GRANDE CONOSCITORE DEI RAPPORTI TRA I SESSI (di Matteo Fais)
“Neanche importa se ami Terry. Tu sei sposato. Quello che conta è non odiarsi e mantenere la pace. La famosa pace armata del matrimonio. Vivi con tua moglie, accanto a tua moglie, ma non grazie a tua moglie. Lei non corre con te e non viene a bere una birra con te, Cristo santo. L’amore è una stronzata. Puoi amare i figli, puoi amare le mogli cornute e le ragazze in minigonna. Ama tutti, figlio mio, e continua a vivere in pace con tua moglie” (Andre Dubus, Non abitiamo più qui, Mattioli 1885).
Non è vero che gli americani sono un popolo senza tradizione né storia. A livello letterario, seppur per acquisizione, sono loro ad aver portato il racconto, o short story, alla sua forma più alta. Quel popolo pensa in modo veloce, ha la fretta nel sangue. E, anche lì dove un’unione sussiste, lo scrittore tende a dividere e spezzettare.
In fondo, tutta l’opera di Raymond Carver è un unico gigantesco lavoro a puntate sulla low middle class e la white trash. Ma la cosa è ancora più manifesta in un volume come Questa America di Holly Goddard Jones, una raccolta di novelle con tanti fili conduttori che si intrecciano, avendo come orizzonte una città e il nuovo proletariato d’oltreoceano, i cui episodi è possibile leggere separatamente, avendo ognuno una sorprendente sussistenza autonoma.
Lo scrittore, però, più ingiustamente trascurato in tal senso, è sicuramente Andre Dubus che, dopo 13 anni, ritorna nelle librerie nostrane con Non abitiamo più qui (Mattioli 1885). Questa fu la sua prima pubblicazione italiana. Contiene tre racconti, con protagonisti comuni, che, in origine, uscirono in diverse raccolte. Questi formano, idealmente, un unico e fantastico romanzo.
L’autore tanto amato da Stephen King, John Irving, Elmore Leonard e John Updike ha dalla sua, in prima istanza, di saper scrivere – cosa che, oggi come oggi, non si sa come, sembra passare in secondo piano per dare maggiore rilevanza ai contenuti espressi. Rispetto al sommo Carver, lui lo fa concedendo alle sue storie maggior respiro, evitando la forma enigmatica ed evocativa, l’ellissi e lo spaesamento. L’osservazione del carnevale umano è maggiormente prolungata, in una sofisticata prassi letteraria in cui, periodicamente, la lente si avvicina a un singolo soggetto portandone a galla infamie e fragilità, slanci ed egoismi. Davvero, alla fine della lettura, il fruitore è come se avesse conosciuto, personalmente e nel profondo, alcuni esseri umani. Il quadro clinico, pur ricostruito con estrema empatia, è completo.
In estrema sintesi, il volume ruota intorno alla vita di due coppie, Jack-Terry e Hank-Edith, rispettivamente due casalinge e due docenti universitari di Letteratura – Hank è anche uno scrittore. In questa storia, tutti verranno traditi e ognuno cercherà a suo modo di venire a capo della difficile situazione matrimoniale. Jack sceglierà la tristezza coniugale sulla passione, rimanendo con sua moglie, per onorare la promessa, in nome dei figli. Hank e Edith decideranno da prima di vivere apertamente delle relazioni parallele per poi approdare al divorzio, malgrado tra loro sussista una tensione che mai si spezzerà totalmente (“sono davvero sposati per sempre, pensa lui”).
In fin dei conti, però, la narrazione della vita di coppia è qualcosa di abusato e già ampiamente battuto. Il fatto è che l’analisi di Dubus ha un livello di complessità mai visto, in cui incanto e disincanto trovano la perfetta fusione (“E anche adesso ti amo, forse più di quanto non ti abbia mai amato in questi anni, ma sono anche arrabbiata […] perché tu hai lasciato che tutto questo accadesse, in tutti i modi possibili […] ora non so che cos’altro accadrà, perché non è finita, quando si fa l’amore non è mai finita…”; “Hai promesso di rivederlo?” “Non c’è stato bisogno di dire niente. Aprire le gambe è già una promessa”; […] dovrai ammettere che pure l’adulterio ha una sua moralità, che anche nell’adulterio esistono delle promesse”).
La realtà del matrimonio, in bocca ai suoi personaggi, è indagata senza reticenze o timore di risultare scomodi, come solo la letteratura dà la possibilità (“Da qualche anno sono diventato spiritualmente allergico alle parole marito e moglie. Quando leggo o sento la parola marito, io mi immagino un uomo di una serenità sinistra sulla sua station wagon, che porta in giro la famiglia rumorosa una domenica pomeriggio […] Quando qualcuno dice la parola moglie vedo il viso sicuro, possessivo e divertito di una donna in cucina; fra tendine luminose, muri, l’odore di olio riscaldato e lei che porge a suo marito un bacio non appena questi torna a casa sobrio, con la pancetta, diretto verso qualche nebuloso obiettivo che è cominciato come amore, si è trasformato in benessere economico durante il matrimonio, e ora si sta convertendo in una dignitosa sopravvivenza. Lei indossa un vestito nuovo. Appese al suo cuore scaltro le palle di lui pendono a mo’ di trofeo vinto in battaglia a un giovane eroe ormai morto da tempo”).
Malgrado i suoi testi non contengano furiose scene di sesso e capriole mortali sui materassi, come nel caso di Bukowski o Houellebecq, l’autore americano ha scritto pagine, in Non abitiamo più qui, non meno scandalose e, soprattutto, dolorosamente vere (“La tua indole è quella di andare a puttane ma tu sei troppo buono per farlo. E così finisci nel peggiore dei modi: monogamo […] Un tempo si faceva così. Era la natura. Un uomo aveva moglie e bambini. E quella era una vita. E poi aveva la puttana […] Non confondeva mai le due cose. Ma ora non è più così: un uomo ha una moglie e ha l’amante e si confonde, capisci? Non sa più dove collocare i suoi sentimenti […] Non ci può convivere, va contro a tutto quello che si suppone essere una normale vita sentimentale. Così è naturale che cerchi di tornare a quella che gli sembra essere la normalità. Al punto di partenza. Diventa devoto a una sola donna o cazzate del genere. Fa qualcosa di stupido. Tronca il rapporto con l’amante, nel tentativo di amare solo sua moglie, oppure lascia la moglie e sposa l’amica. E se sceglie quest’ultima soluzione, nel giro di pochi anni si ritrova nella stessa merda e come unica soluzione non gli resta che continuare ad accumulare matrimoni”).
Altro aspetto decisamente non trascurabile, per il quale Dubus può sicuramente essere annoverato tra i più grandi autori maschili, è il suo modo di raccontare l’universo femminile. Di fronte ai tanti che, oggi, in tempi di caccia alle streghe, politicamente corretto e femminismo compiacente, sono convinti di dover dipingere le donne come semplici vittime del maschile, o pseudo eroine in lotta contro il patriarcato, lui è uno dei pochi a rifiutare tale imbarazzante prospettiva. Se, ancora, nella società da lui descritta, vi è una misura di subordinazione – o almeno la pretesa di questa da parte degli uomini, anche più colti –, i bovariani personaggi femminili della sua narrativa sono tutte donne che sanno difendersi e far valere le proprie ragioni all’interno dei rapporti sentimentali. Non si arrendono, lottano, si vendicano, sanno guadagnarsi i propri spazi. E, quando parlano, lo fanno fuori dai denti (“Mi sento sola, ecco perché. Sono una donna, mi spiace, non riesco a essere nient’altro, e ho bisogno che mi venga detto e ho anche bisogno di essere amata. Tu non mi ami, tu mi scopi!”). Dal naturale conflitto col sesso opposto, non sono travolte. Lo vivono, ma ne prendono anche coscienza in totale autonomia (“La sua intimità con Hank era una cosa privata: loro due parlavano a tavola o a letto. L’intimità di Hank con gli altri uomini era invece pubblica, e quando si trovava con gli amici, lui parlava soprattutto con loro, badava soprattutto a loro: c’erano volte in cui non sembrava nemmeno rendersi conto della presenza di Edith o di qualche altra donna nella stanza. Già da tempo lei aveva smesso di risentirsi per questo […] Ma era arrivata a uno stadio ulteriore di comprensione: guardando gli uomini si era accorta che l’essere interessati alle donne non era nella loro natura. Ed era reciproco. Per lo meno, non erano interessati a quello che avevano da dirsi, allo scambio d’idee”).
Dubus sa cos’è l’amore. Lo sanno i suoi personaggi, senza distinzione di genere. Hanno anche cognizione della differenza di prospettive, nel modo di vivere le relazioni, che dà adito all’insanabile guerra tra i generi (“Tu dici sempre sei quello che fai […] Significa che sono una cuoca, una tuttofare, una puttana, una che fa i letti ogni mattina e avanti, avanti… una cazzo di donna delle pulizie, Cristo santo? Perché se tu… tu, brutto stronzo” – mi guardava, poi distoglieva lo sguardo – “se ti comporti male, se ti arrabbi, se ti ubriachi, se perdi tutto quello che hai, io continuo lo stesso ad amarti, e mi troverei un lavoro e provvederei io a noi. Magari nessun altro ti amerebbe. Saresti un uomo diverso per loro: per i tuoi amici, per i tuoi studenti. Ma non per me. Io ti amerei. Ti amerei anche se tu andassi in giro di notte ad avvelenare i cani. E allora che cosa amo, se quello che fai non mi importa? Amo te […] E dico che sei più di quello che fai […] Ho ragione? Non è me che ami, sono queste mie marchette, non è vero? I miei stupidi spaghetti al ragù, il Martini ghiacciato quando torni a casa ogni fottuto pomeriggio, il modo in cui io, Cristo santissimo, mi vesto e cammino e scopo, non è questo che ti piace?”).
Davvero, l’opera dell’americano – e, in particolare, Non abitiamo più qui – è, oltre a un mirabile lavoro sul piano stilistico, sapientemente tradotto dagli abili Manuppelli e Nori, un grande trattato psicologico sull’amore, la famiglia e le relazioni umane nella fase di transizione tra la liberazione sessuale e la nuova fluidità della coppia – subito dopo, l’ideale sarebbe leggere l’opera teatrale di Patrick Marber, Closer.
Dubus è certamente tra i migliori e non passerà, verrà semplicemente riconosciuto.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.