HIROKO OYAMADA E LA NUOVA FANTASTICA LETTERATURA GIAPPONESE (di Matteo Fais)
“Ci troviamo a competere con la scaltrezza dei giapponesi”, cantava Roger Waters, in Not Now John, una canzone dei Pink Floyd contenuta in The Final Cut, un album del 1983. Lui si riferiva alla grande fioritura economica nipponica, dovuta allo sviluppo del settore hi-tech, dalle macchine fotografiche agli impianti stereo.
Oggi, invece, se il Giappone si sta facendo nuovamente largo nel mondo, non è grazie alla tecnologia, o alla sua cucina, ma in ragione di una nuova primavera letteraria, com’è stata definita. Infatti sempre più case editrici, anche in Italia, dopo aver dato spazio ai grandi classici come Tanizaki, Kawabata, Dazai, e alla testa d’ariete Banana Yoshimoto – troppo sottovalutata, pur essendo colei grazie alla quale la nuova letteratura giapponese si è aperta al mondo – hanno deciso di prendere in seria considerazione il fenomeno, addirittura scegliendo di affrontare i più alti costi di traduzione, senza passare per le versioni inglesi, come è stata prassi per lungo tempo.
Insieme alla Atmosphere Libri, che manifesta un particolare interesse per le opere anche più difficilmente assimilabili in Occidente, è impossibile non segnalare Neri Pozza. Quest’ultima ha di recente pubblicato Hiroko Oyamada, già vincitrice di alcuni tra i più prestigiosi premi letterari nipponici, con il suo La buca – in precedenza, aveva già dato alle stampe La fabbrica.
Se c’è una cosa da precisare subito su questa giovane scrittrice è che non ha omologhi in Italia. La buca è per certi versi un romanzo horror, ma privo di scene splatter. Insomma, più un lavoro kafkiano che kingiano, un’opera per palati fini che non cercano scosse emotive da grande schermo, ma prediligono le inquietudini più profonde. Al contempo – cosa che, non si capisce perché, ma gli scrittori italiani non vedono di buon occhio –, si tratta di un testo in cui la denuncia sociale è presente – mai in modo didascalico – in ogni pagina (“Il lavoro extra pesava come al solito sulle spalle di noi povere impiegate a contratto […] “Quante sono le possibilità di ottenere un posto a tempo indeterminato? Una su un milione, forse?”). Non per niente Oyamada viene dall’esperienza della fabbrica, successivamente alla conclusione dell’esperienza del college.
Il libro è la storia di Asa, giovane moglie sulla trentina, che dalla città si trova catapultata in provincia, ai margini della prefettura, a seguito di un trasferimento per motivi di lavoro del marito. Lei abbandonerà la sua occupazione precaria per seguirlo, trovandosi a vivere a fianco ai suoceri, in una casa di proprietà di questi ultimi, che verrà loro gentilmente concessa senza corrispondere alcun affitto, e di cui la donna non sapeva niente.
In questo spazio alieno alla frenesia metropolitana, la protagonista si troverà a fare i conti con sé stessa (“Non che fossi ingrassata, anzi. Eppure avevo perso agilità, mi muovevo con lentezza, come se i muscoli, le articolazioni e ogni singola cellula del corpo si fossero irrigiditi”). Non avendo più la dimensione lavorativa a definirla che, a quanto pare, è così determinante in Giappone, secondo il principio del “tu sei il tuo lavoro, e questo stabilisce il tuo contributo sociale, il tuo stare nel mondo”, Asa si renderà conto di cosa voglia dire vivere la libertà da cui il Sistema ha sempre cercato di tenerla a debita distanza (“Sentivo dire spesso che le casalinghe avevano vita facile e che nessuno era in grado di godersi la vita come loro, con una montagna di tempo libero a disposizione e persino la possibilità di schiacciare un bel pisolino tutti i pomeriggi. Ma molto presto mi resi conto che poltrire e dormicchiare rappresentavano l’unica attività che non richiedesse denaro. Le ore scorrevano con estrema lentezza, eppure le giornate e intere settimane si consumavano con stupefacente rapidità. Ben presto finii per smarrire il senso del tempo […] I secondi, i minuti e le ore mi scivolavano via, insignificanti, tra le dita”). Alla fine, in lei, per quanto non a un livello nitidamente cosciente, si svilupperà un fermo senso di nausea e repulsione per ciò il vivere in società le ha sempre richiesto (“le possibilità di procurarsi un lavoro decente non mancavano, ma non ci stavo mettendo sufficiente impegno. La verità era che non mi interessava assicurarmi un impiego permanente e ben pagato. Anzi, dirò di più, non sentivo affatto il bisogno di lavorare, non ne vedevo il vantaggio. Potevo vivere tranquillamente senza un lavoro”).
In mezzo a tutta questa serie di problemi molto concreti, uno scenario surreale si spalanca intorno a lei, come quando segue un animale dalle fattezze oniriche, fino a cadere dentro una buca profonda e stretta, che sembra scavata appositamente per lei. Manco a dirlo, l’inseguimento dell’animale ricorda molto da vicino quello della Alice di Lewis Carroll, ma il Paese delle Meraviglie è decisamente un regno kafkiano di turbamento, così come la buca, da cui poi uscirà, è un po’ un’oscura metafora di tutto il non detto e dei segreti che circondano la sua vita, e di ciò che, fino a quel momento, nella sua in fondo tranquilla routine, ha trascurato di indagare e comprendere.
Ogni personaggio che le ruota intorno è un enigma e una plastica rappresentazione del Giappone attuale. Infatti, non poteva mancare la figura dell’hikikomori, che si dichiara fratello del marito e di cui lei non sapeva niente, il quale conduce a sua volta, per quanto a un livello più consapevole, un’esistenza ritirata, nel totale rifiuto della struttura sociale che gli hanno costruito intorno (“Ah, che bei ricordi… E così sono passati vent’anni… Vent’anni in cui non ho fatto un bel niente, neanche un solo giorno di vero lavoro… Perché io sono un perfetto buono a nulla!”).
Invero, in questo testo – e qui sta la sua vera forza –, non è mai chiaro quanto ci sia di reale e quanto di proiezione mentale del malessere di Asa, in un costante gioco dialettico tra realtà e finzione – come lei sprofonda in una buca che poi non ritroverà più, così il marito quasi non la considera mentre, a casa, anche durante la cena, sprofonda sempre di più nello schermo del suo smartphone.
La buca è un testo apparentemente scritto in modo lineare, in cui sono quasi assenti le figure retoriche e le immagini più spericolate da parte della voce narrante, ma nel quale è la storia che cerca continuamente di spiazzare il lettore ricordandogli quanto possa essere irreale e spaventosa la realtà, come dolorosamente realistico il sogno.
Insomma, se c’è da scommettere ancora qualcosa su un ipotetico domani della letteratura, non è folle dire che il futuro sarà un’altra volta dei giapponesi.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.
Forse ho una preparazione culturale troppo basica nel senso che per me la scrittura deve scendere come una focaccia untuosa piena di mortadella e una gazzosa per cui la filosofia nipponica ( se ne esiste una) mi è indigesta.