“GRIDA DAI TETTI IL SUO AMORE PER ME”: IL TESTO DI MARINA CVETAEVA E GEORGIJ EFRON, TRA ARTE, DOLORE, FUGHE E ORRORE SOVIETICO (di Marco Pianti)
Il 31 agosto del 1941, Marina Ivanovna Cvetaeva iscrive il suo nome nel calendario liturgico della poesia russa. La donna, finita in miseria, compie il gesto estremo, affidando la propria testa tormentata e nevrastenica a un cappio assicurato a un gancio nella sua stanza di Elabuga, in Tataria, dove era stata evacuata insieme a Georgij Efron, suo figlio prediletto. Prosegue così la dinastia di poeti suicidi, squartati dalla macchina sovietica, ovvero la forma tangibile della parafrenia staliniana.
Il diario di Mur (nomignolo di Georgij Efron, affibbiatogli dalla madre), segue lo stesso itinerario di tanti altri testi russi, passando cioè dalla Francia, per poi iniziare una lenta proliferazione nel resto d’Europa. In Italia, Grida dai tetti il suo amore per me è stato pubblicato da MAGOG nel 2022.
Le pagine del diario, che vanno dal 1940 al 1943, sono precedute da alcuni scritti sull’arte di Marina Cvetaeva, in cui la l’autrice indaga il tema dell’origine e del ruolo della poesia, il che, tradotto in termini più intimi, per il poeta, è un’analisi sulla propria identità, un minuzioso lavoro di destrutturazione, in cui sono citati tra gli altri Tolstoj, Puškin e l’amico Pasternak.
In queste pagine proposte in forma di saggio, la lirica viene assimilata alla natura e ne costituisce una testimonianza, al pari di un albero o di un cataclisma. Questa opinione dispensa l’arte da qualsiasi giudizio etico o utilitaristico. È inutile, per l’autrice, pretendere che una poesia si riveli giusta o utile – due concetti sovrapponibili nell’ideologia sovietica -, così come sarebbe folle applicare tali categorie alla nascita e allo sviluppo di un prodotto naturale. Il poeta è un mezzo attraverso il quale si esprimono le forze elementari, in una teoria che riconduce il lettore all’idea greca del sacerdote che traduce gli oracoli. La poesia è un abisso, un’ebbrezza, e il poeta scrive con “lingue di fiamma, con flutti d’oceano, con sabbie di deserto, con tutto, insomma, tranne che con parole”. La parola poetica supera la sua condizione di segno e diventa incarnazione cosmica, pestilenza, morte, un buio in cui riecheggia la volontà dell’autore, chiamato a governare le forze primordiali dalle quali è impossessato. Marina Cvetaeva riordina questi concetti nel disperato tentativo di costruire una bussola rudimentale che riveli il suo posto nel mondo, il suo ruolo di poeta tra altri poeti, condizione alla quale il destino l’ha strappata condannandola all’esilio.
Marina e Mur rientrano in patria nel 1939, dopo un lungo soggiorno a Parigi – avevano abbandonato la Russia all’indomani della rivoluzione. “Le nostre famiglie hanno vissuto insieme per un periodo, dopo il rientro in Russia, abbiamo condiviso una Dacia. Marina Ivanovna ci invitava spesso ad ascoltare i suoi versi più recenti” racconta Dimitri Sesemann (“une vie, une oeuvre”, “France Culture”, 1991), scrittore e traduttore russo, e prosegue “La sua poesie era una specie di tensione nervosa. Ma il modo in cui recitava quei versi mi turbava, li recitava con una violenza che contrastava con il suo aspetto grigio, con i suoi capelli grigi, tagliati corti, i suoi gioielli e i suoi abiti, anch’essi grigi, discreti, fragili, modesti. Era come se, ad ogni verso, mettesse a repentaglio la propria esistenza”. Questa la Cvetaeva poetessa, che grida i suoi versi, con frenesia, li lancia come coltelli affilati, riscatta la propria inettitudine, la sua fragilità, attraverso la poesia. È descritta come una persona invivibile. La figlia Ariádna, nel 1918, all’età di sei anni, scrive: “Mia madre è una persona molto strana” e poi “i genitori ammirano i propri figli. Mia madre non ama i bambini, né i suoi né quelli degli altri”.
Nelle pagine del diario di Mur, Cvetaeva si rivela una madre affettuosa ma incapace di gestire la sua vita negli aspetti pratici. Mur vorrebbe frequentare una buona scuola e studiare, ma viene rimbalzato da un comitato all’altro con inutili lettere di raccomandazione. Lamenta di non ricevere dalla madre un’educazione sessuale, fondamentale, secondo lui, per un adolescente che scopre i tumulti ormonali tipici della sua età. Dai suoi scritti traspare la nostalgia dell’Europa, il ricordo malinconico di Parigi, alla quale dedica versi che ne auspicano la rinascita dopo le lacerazioni della guerra. È testimone del lento declino psicologico della madre che parla incessantemente di suicidio e si ostina a trascinarsi per le vie di Mosca, con un carico di bagagli, alla ricerca di un alloggio che non troverà mai.
“Nella notte tra il 21 e il 22 (Luglio 1941), Mosca ha subito il suo primo raid aereo dall’aviazione tedesca”. Giunge il momento di rassegnarsi, di essere evacuati chissà dove, di rinunciare a Mosca, alla quale Mur si aggrapperà fino alla fine, come simbolo della sua salvezza. Mur e Maria Ivanovna sono costretti ad un viaggio su una bagnarola affollata che li condurrà a Elabuga, capolinea dei tormenti della poetessa. Qui ricomincia la ricerca di un alloggio, di una scuola, di un impiego qualsiasi.
Cvetaeva, nel frattempo, non scrive più, consacra i suoi sforzi al lavoro di traduzione (traduce, tra gli altri, Baudelaire e Lermontov) nella speranza di guadagnare qualche rublo. Compie un viaggio nella vicina Čistopol’, ma è l’ennesimo fallimento. Mur vive con apprensione e frustrazione, circondato da bifolchi, è spaventato dalla prospettiva di finire a lavorare nei campi, come un contadino qualsiasi. La sua vocazione è la letteratura, legge Valery, A.Tolstoj, Gide e Faulkner (di cui liquida il romanzo “Santuario” definendolo inutile e penoso).
Il 31 agosto 1941, Mur non scrive. Quel giorno, invece, Marina Cvetaeva verga tre lettere. Si tratta di tre biglietti d’addio, la forma suprema di letteratura che le consente l’accesso nel martirologio in cui si aggiungerà a Majakovskij, Esenin, Blok e Mandel’štam. Un pantheon maledetto. Tra le carte che lascia vicino al suo corpo sospeso, implora il poeta Aseev e la sua famiglia di prendersi cura di Mur. Si premura inoltre di avvertire chiunque dovesse trovare il suo cadavere di non seppellirla viva. Un ultimo sussulto dei suoi nervi malati e ormai lacerati. Georgij Efron accoglierà la notizia con distacco, come se ne comprendesse la logica e si rifiutasse di contestarla. In effetti, la morte della madre lo rende libero di perseguire un nuovo ritorno a Mosca.
L’ultima pagina del diario, che reca la data del 25 agosto 1943, si conclude così: “Aspettiamo, aspettiamo. Arriverà, spero”. La speranza è quella di sovvertire le sorti del conflitto e fare rientro nella capitale. Una speranza, l’ennesima, da formulare come una preghiera, rivolta ai comitati, ai burocrati, alle aggregazioni insopportabili che amministrano le coscienze con il preciso intento di annichilirle.
Marco Pianti