SORVEGLIARE E PUNIRE – BISOGNA RIPENSARE IL CARCERE (di Alex Vön Punk)
L’ennesimo suicidio, l’ennesimo gesto estremo per cercare una liberazione da una moderna forma di tortura. Un ragazzo di 25 anni se ne va di scena dietro un sipario di ipocrisie ma, al posto di scroscianti applausi, c’è solo il sordo silenzio dell’indifferenza ad accogliere il suo atto.
Questo caso di poche ore fa si aggiunge al precedente di alcuni giorni fa, quando una ragazza, anche lei giovanissima, 27 anni, e una vita che poteva ancora essere vissuta, si è tolta la vita in carcere. Il lungo elenco di suicidi negli istituti penitenziari italiani dovrebbe spingerci a fissare il nostro sguardo sulla situazione dietro le sbarre, anche se non vogliamo: 1.275, dal 2000 sino ad oggi (http://www.ristretti.it/areestudio/disagio/ricerca/).
Il carcere è un’istituzione dispendiosa che grava sulle spalle della comunità. Ogni detenuto ci costa in media 154 euro al giorno. Questa somma, è bene saperlo, non è destinata totalmente alle sue esigenze: al contrario, la quasi totalità va a coprire tutte le spese che occorrono a sorreggere l’intero sistema.
Accanto a tale questione, non bisogna mai perdere di vista il problema principale: il carcere non mantiene le sue promesse, non funziona come deterrente, rieduca poco o niente e replica all’infinito crimini e criminali. Circa il 68% di chi va in carcere è recidivo e finisce nuovamente dentro. Si può quindi ragionevolmente affermare che, anche in meri termini utilitaristici, non funziona.
Il lato maggiormente spaventoso di questo strumento, però, è quello celato dietro le sbarre, a porte chiuse, lontano dagli occhi dei cittadini che continuano la loro vita dimenticandosi degli esseri umano rinchiusi tra quelle mura, circondati dal filo spinato. Questi non hanno – o almeno non dovrebbero – aver perso i loro diritti in quanti Uomini solo per aver commesso un errore, qualsiasi esso sia. Dentro quelle celle, tra violenze e pestaggi, autolesionismo e solitudine, avviene la completa disumanizzazione dell’individuo. Non si tratta più di giustizia ma di vendetta.
Tra i tanti come dimenticare il caso di Marcello Lonzi deceduto in carcere con otto costole rotte, due buchi in testa, mandibola, sterno e polso fratturati, archiviato come decesso per infarto; oppure, Vittorio Fruttaldo stroncato da un malore dopo uno scontro fisico con gli agenti di polizia penitenziaria.
Non possiamo voltarci dall’altra parte! Una società che voglia dirsi civile ha il dovere di tutelare la vita umana di chiunque. Tale volontà non può prescindere dal preservare i carcerati nell’integrità e dell’incolumità del corpo, con particolare attenzione alla personalità del condannato, come esplicitato dalla Costituzione “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”(Articolo 27).
Marco Pannella, che ha speso una vita nella lotta per la dignità dei carcerati, conosceva bene questo aspetto, come sottolineato nel libro Visitare i carcerati (Marcianum Press 2016): “Temo che l’indifferenza dello Stato accentui la disperazione delle donne e degli uomini ammassati nelle prigioni. Corpi a cui viene tolta la dignità, vengono annullati i diritti fondamentali e per i quali il principio della Costituzione secondo cui la pena deve tendere al reinserimento sociale si rivela una beffarda irrisione […] Hanno rinchiuso nelle gabbie migliaia e migliaia di soggetti deboli, poveri, stranieri, tossicodipendenti, emarginati, borderline, trasformando il carcere in una discarica sociale e malignamente si accaniscono secondo la massima vigliacca: forti con i deboli, deboli con i forti”.
La domanda da porsi è la seguente: abbiamo un’alternativa?
La prima cosa è trattare il carcere per quello che è, ovvero un prodotto umano e quindi soggetto a fallimento, verifica, rettifica ed eventuale superamento. Va tenuto bene a mente che esso è un prodotto recente. Si affaccia nella storia, così come lo conosciamo oggi, durante la rivoluzione industriale. Con l’espandersi delle città e l’arrivo di contadini dalle campagne, lo Stato autoritario pone sul medesimo piano educare e controllare.
Un altro elemento da prendere in considerazione è che una parte della popolazione carceraria non dovrebbe essere dentro, in quanto non ha commesso alcun crimine reale, non ha aggredito nessuno – si pensi agli spacciatori, ai consumatori di droga, agli evasori fiscali. Questo rappresenta una distorsione del sistema – chi ruba un pacco di pasta o un bracciale d’oro, chi spaccia, e chi uccide finiscono nel medesimo carcere.
È necessario fare una netta distinzione tra sicurezza e pena. È ovvio che chi può nuocere al prossimo o ha manifestato comportamenti violenti recidivi debba stare da un’altra parte e questa non può essere il carcere nella forma nella quale generalmente lo si intende oggi. La limitazione della libertà di movimento (che è quella che consente di aggredire gli altri) non deve essere accompagnata dalla negazione delle altre libertà fondamentali e dei diritti il cui esercizio non permetta di nuocere al prossimo.
Si potrebbe optare per soluzioni più rispettose della dignità umana. Già avviene per le donne condannate con figli minori ospitate presso case-famiglia, per gli arresti domiciliari. In pratica, si tratta di ripensare completamente il concetto stesso di sicurezza che non ha niente a che vedere con la vendetta.
Filippo Turati, in un suo intervento alla camera il 18 Marzo del 1904, disse “Le carceri italiane rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta: noi crediamo di aver abolita la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata; noi ci vantiamo di aver cancellato la pena di morte dal codice penale comune, e la pena di morte che ammanniscono a goccia a goccia le nostre galere è meno pietosa di quella che era data per mano del carnefice; noi ci gonfiamo le gote a parlare di emenda dei colpevoli, e le nostre carceri sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento dei malfattori”. Sono passati più di cento anni e siamo ancora qui, ad aspettare un passo in avanti verso la civiltà che ci allontani dalla barbarie. Lo dobbiamo ai detenuti intrappolati e violentati nel corpo e nello spirito, a chi ha pagato con il sangue la nostra indifferenza.
Alex Vön Punk
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L’AUTORE
Alex Vön Punk viene costruito a Pisa negli anni ‘80. Bandito, cantante e scrittore di canzoni punk nella band pisana Enkymosis fino al 2009. Autodidatta d’assalto tra un lavoro precario e l’altro, grafico freelance, agitatore politico e provocatore di tendenze anarchiche, anti-autoritarie e federaliste, membro del Centro Studi Liibertario “Società Aperta” che si occupa di libertarismo, diritti civili e della promozione del reddito di base universale.