IL VERO TEMA DELLA CAMPAGNA ELETTORALE SARÀ IL REDDITTO DI CITTADINANZA (di Alex Vön Punk)
Non siamo ancora nel vivo della campagna elettorale per le prossime elezioni del 25 settembre, ma già possiamo provare a delineare i temi cardine che infiammeranno il dibattito: uno su tutti, il Reddito di Cittadinanza.
Il Movimento Cinque Stelle si troverà praticamente solo a difendere questa misura contro gli assalti della Destra e del Centro, composto da Calenda e Renzi. Curioso, tra parentesi, che quest’ultimo anteponga un’obiezione ideologica al Reddito di Cittadinanza, quando questo è praticamente un “Rei” (il Reddito di Inclusione voluto dal suo Governo) potenziato.
Tralasciando i dati e le ricerche sulle applicazioni pratiche dell’RBU (Reddito di Base Universale), che meriterebbero di essere trattate a parte, bisogna sottolineare però che, Pëtr Alekseevič Kropotkin, ne La conquista del pane, riconduce la radice dello sfruttamento alla leva del bisogno. Per logica, andando ad abbattere questa, le persone sarebbero liberate da un simulacro di libertà, la finzione della scelta, che le porta a svolgere lavori e mansioni degradanti, con orari e paghe da neo-schiavismo.
Soldi gratis, un’idea non di certo nuova. Thomas More ne parlava già nel suo libro “Utopia” del 1516, mentre per Philippe Van Parijs, uno dei più grandi promotori dell’RBU, essa rappresenterebbe la via “capitalista al comunismo”, ma io preferisco la via libertaria al socialismo.
Sia ben chiaro, è difficile non essere ostili al Reddito di Cittadinanza pentastellato, in quanto esige in via teorica una contropartita lavorativa, non garantendo così il sacrosanto diritto aristocratico all’ozio, al dolce far niente – che non esiste. L’esperienza dei Lockdown, a cui un Governo illiberale ci ha costretti, ci ha dimostrato come in realtà “il dolce far niente” sia più una rappresentazione allucinata di una certa parte dell’opinione pubblica che realtà. Le persone, infatti, lontane dal lavoro, dagli impegni e dalla velocità delle nostre vite, una volta riappropriate del proprio tempo, hanno iniziato a panificare in casa, fare conserve, cucinare, darsi al bricolage avventuriero, aiutare gli altri e lanciarsi in mille mila attività creative. Questa circostanza ci ha dimostrato che l’essere umano è votato al fare e non alla venerazione del sacro divano.
Allora, perché questa opposizione sfrenata all’ozio, se ozio non è? Perché per la mentalità produttivista, che ci plasma dall’avvento della Rivoluzione Industriale, l’uomo è contributore al benessere della società nella misura in cui è parte del sistema produttivo. Certo ci sarebbe da chiedersi se contribuisca di più al benessere della collettività un libero busker che fa il clown o un musicista, che allieta le serate d’estate nei quartieri popolari o per le vie delle città, oppure un fiero alfiere facente parte della filiera produttiva di armi da guerra.
Bertrand Russel, nel suo Elogio dell’ozio, scrive “L’etica del lavoro è l’etica degli schiavi, e il mondo moderno non ha bisogno di schiavi”, per poi aggiungere che “Il concetto del dovere”, su cui si basa l’ideologia produttivista, “storicamente parlando, è stato un mezzo escogitato dagli uomini al potere per indurre altri uomini a vivere per l’interesse dei loro padroni anziché per il proprio”. Il lavoro, quindi, per il mondo moderno, sarebbe un dovere e non conta cosa o quanto un uomo produca, ma piuttosto lo zelo con cui getta la propria unica vita tra le braccia del sistema produttivo.
Paul Lafargue, genero di Marx – ma che con Marx non aveva in comune, se non l’amore per la figlia – ci ricorda che “anche i Greci dell’antichità non provavano che disprezzo per il lavoro: solo agli schiavi era permesso lavorare; l’uomo libero conosceva unicamente gli esercizi corporali e i giochi di intelligenza”. Per Lafargue il lavoro è un male, una follia celebrata da preti, economisti e moralisti, una follia che prosciuga le forze vitali dell’individuo, lasciandolo sfinito e senza la possibilità di dare sfogo alla sua creatività di Uomo.
Nella nostra società, allora, il mondo non appartiene ai liberi, ma a chi se lo può permettere, a chi ha i soldi per potersi godere i piaceri della vita, a chi può dedicare tempo a chiedersi “chi sono?cosa voglio?”.
Ma se il lavoro è un dovere, perché abbiamo persone che vivono di rendita e non lavorano? Perché non vengono accusate di essere parassiti della società? Perché ciò che scandalizza non è l’astenersi dal lavoro, ma l’idea che anche i poveri possano avere una scelta, una possibilità reale di rifiutarsi, di sottrarsi a ciò che non gli piace o che considerano non appropriato per loro – scelta che è sempre stata appannaggio delle classi privilegiate, dei ricchi e degli aristocratici.
L’uomo libero, per parafrasare Renzo Novatore, è colui che si innalza e si pone superbo ai margini della società, non permettendo a nessuno di giudicarlo. Siamo tutti Re di noi stessi. È giunto il momento di reclamare questo diritto anche nella prassi e non solo nelle illusioni teoriche: dateci la grana, dateci lo champagne e per me una bottiglia di Rum.
Alex Vön Punk
Email: vonpunk@tutanota.com
Telegram: @VonPunk
L’AUTORE
Alex Vön Punk viene costruito a Pisa negli anni ‘80, bandito, cantante e scrittore di canzoni punk nella band pisana Enkymosis fino al 2009. Autodidatta d’assalto tra un lavoro precario e l’altro, grafico freelance, agitatore politico e provocatore di tendenze anarchiche, anti-autoritarie e federaliste, membro del Centro Studi Liibertario “società aperta” che si occupa di libertarismo, diritti civili e della promozione del reddito di base universale.