BISOGNA RIDISCUTERE L’ABORTO (di Davide Cavaliere)
Negli Stati Uniti d’America, il dibattito intorno all’aborto è sempre stato incandescente. Se così non fosse stato, non si sarebbe giunti alla recente sentenza della Corte Suprema. Ora, è arrivato il momento di riaccendere tale dibattito anche in Italia, dato il fallimento della legge 194.
La suddetta norma, che che ne dicano i suoi paladini di ieri e di oggi, non solo non ha corrisposto per nulla alle premesse da cui era partita, ma, quel che è peggio, la storia di questi decenni rende evidente tutto l’orrore di una legislazione che, opportunamente propagandata con linguaggi progressisti e narrazioni filantropiche oltreché infarciti di numeri gobbelsianamente manipolati, è inficiata da quella ideologia della liberazione, e perciò stesso nichilista e omicida, che è poi la cifra culturale della modernità tardiva.
Il ritornello ripetuto come un disco rotto a sostegno della sua esistenza è che grazie a essa il numero di aborti in Italia è sceso rispetto agli anni precedenti. A leggere le statistiche ufficiali parrebbe che sia così: a partire dal 1982, anno in cui gli aborti legali hanno raggiunto il picco di 234.377, si è registrato un costante calo fino agli 67.638 del 2020. Non solo, è calato pure il tasso di abortività (numero di aborti per donne in età fertile), passato dal 17,2 per 1000 del 1982 al 5,4 per 1000 del 2020.
Ciò che in merito a questi numeri viene taciuto, sono le molteplici causa che hanno portato alla riduzione del numero di aborti, non attribuibile solo alla legalizzazione della pratica in questione. Le interruzioni volontarie legali sono calate da un lato, per fattori quali la riduzione della fertilità nelle donne e delle coppie, l’aumento del numero dei bambini salvati dal sistema del volontariato per la vita, la maggiore conoscenza e consapevolezza del dramma dell’aborto grazie ai numerosi studi sul trauma che può generare, la separazione tra sessualità, ormai precocissima, e procreazione, sempre più rimandata, la mutata condizione economica della donna, che produce maggiore autonomia in merito alla riproduzione. Dall’altro, contemporaneamente, il calo è dovuto al maggior ricorso ai metodi contraccettivi, inclusa la «pillola del giorno dopo» con le sue ben note potenzialità e al fatto che, spesso e volentieri, gli aborti avvengono in privato, per mezzo della pillola RU-486.
Ma al di là dei numeri, ciò che più desta raccapriccio è la portata culturale e ideologica della legalizzazione sull’aborto, che dal 1978 a oggi ha sottratto alla nazione ben sei milioni di bambini, è l’assunto da cui muove: ossia la negazione dello status di essere umano e la contestuale riduzione a «grumo di materia inerte» del feto. Si è voluta, e ancora si pretende, la libertà di sopprimere il feto sapendo perfettamente, anzi a motivo del fatto, che quel feto è un essere umano a tutti gli effetti. Gli abortisti tacciono la realtà dell’operazione che difendono, il suo rifiuto intrinseco della vita umana.
Chiunque abbia visto un sonogrammo, una foto della vita prenatale o abbia speso cinque minuti su un manuale di embriologia sa che il feto è un essere umano. Al fine di terminare una gravidanza, bisogna ridurre al silenzio un cuore che batte, spegnere un cervello che cresce, spezzare degli arti che si sviluppano, raschiare via dei tessuti. L’estrema violenza della pratica è opportunamente celata alla vista della società, come lo sono i mattatoi.
È necessario demolire anche l’altro assunto, di sessantottesca memoria, in base al quale «l’utero mio e me lo gestisco io». Nessun essere umano, è il feto è tale, può diventare proprietà di un altro e da questo essere «gestito». Il bambino non nato non è un organo di sua madre, egli è un essere unico, irripetibile, con una suo corredo genetico. La madre non può disporre dell’esistenza di questo essere fino a decretarne la morte. Il «diritto» della donna ad abortire entra in conflitto col diritto alla vita del nascituro. In una società giusta, capace di guardare al futuro, accoglie ogni essere umano, dal momento del concepimento alla morte. Noi, al contrario, dentro la nostra notte materialistica, abbiamo preferito istituzionalizzare il privilegio dell’adulto di espellere il feto, il trionfo del più forte sul più debole.
A nulla vale anche l’argomento dei nascituri affetti da un qualche handicap o venuti alla luce in contesti economici difficili. Per quanto concerne il primo caso, ammattere la possibilità dell’aborto per i malati o malformati, significa istituire una gerarchia tra vita «degne» e vite «indegne», che ha aperto la strada alle nuove forme di eugenetica morbida, che stanno portando alla scomparsa delle persone affette da sindrome di Down. Per quanto riguarda il secondo caso, se il contesto in cui il feto è destinato a vivere è connotato da miseria e povertà, la soluzione non è negargli la vita, ma sforzarsi di migliorare, a suo beneficio, le condizioni dell’esistenza a cui andrà incontro. Se diventa legittimo uccidere un essere umano perché rischia di essere talmente povero da togliere qualsiasi valore alla sua vita, diventa legittimo allora uccidere tutti coloro che già ora muoiono di fame anzi, perché non uccidere tutti quelli che non sono milionari?
I tempi sono più che maturi per una revisione dell’ideologica legge 194, che ha innescato più problemi di quelli che pretendeva di risolvere, spingendici sulla strada dell’eugenetica e dell’infanticidio. Il punto fermo da cui partire è che a nessuno può essere concesso il diritto di uccidere. L’aborto non può essere un diritto. E questo perché c’è un diritto alla vita, quello del feto, che sopravanza quello dei genitori. I diritti «civili» sono solo una sofisticata barbarie contro cui combattere.
Davide Cavaliere
L’AUTORE
DAVIDE CAVALIERE è nato a Cuneo, nel 1995. Si è laureato all’Università di Torino. Scrive per le testate online “Caratteri Liberi” e “Corriere Israelitico”. Alcuni suoi interventi sono apparsi anche su “L’Informale” e “Italia-Israele Today”. È fondatore, con Matteo Fais e Franco Marino, del giornale online “Il Detonatore”.