NEMICO PUBBLICO – UNA LETTERA D’AMORE DI MARINA CVETAEVA DAL PROFONDO DELL’INFERNO SOVIETICO (di Matteo Fais)
In Occidente, ci piace tanto ripeterci l’un l’altro, di fronte a un prosecco e una ciottola di patatine, che la democrazia da noi non esiste, che non siamo, in tal senso, in una situazione tanto diversa dalla Russia di Putin o della Cina odierna che ci sommerge di oggetti a poco prezzo e All You Can Eat. Ergo, meglio sarebbe trovarsi sotto l’ala protettrice di questi, rimuovendo ogni falsa apparenza di libertà di pensiero, di parola e manifestazione che tanto a poco servono, se non alle masse credulone che ritengono ancora di vivere in regime più o meno sano.
Chissà cosa ne avrebbe pensato Marina Ivanovna Cvetaeva, poetessa russa, che dal regime sovietico si vide arrestare la figlia Ariadna e il marito Sergej Efron. Una volta tornata in patria, col figlio Mur, si ritrovò pure a vivere in miseria, a mendicare un pasto e a domandare un lavoro da lavapiatti in una mensa. Si può trovare testimonianza di ciò nell’opera Nemico Pubblico, recentemente pubblicata dalla De Piante editore in una tiratura di 500 esemplari.
Si apprende così di come la scrittrice, a un certo punto, fu costretta a inviare una missiva, in preda alla disperazione, a Lavrentij Pavlovič Berija, Commissario del Popolo per gli Affari Interni e capo del NKVD, praticamente la polizia segreta, una specie di Eichmann rosso responsabile di epurazioni e persecuzioni, a sua volta cancellato dal mostro divoratore dei suoi figli. Lo fece nella speranza di avere salva la vita del marito, un uomo già fortemente provato da disturbi cardiaci e tubercolosi.
Tanta clemenza non le fu accordata e probabilmente lei stessa aveva ben chiaro che non sarebbe potuto essere altrimenti. Il tentativo di richiamare a una giustizia più alta si sarebbe risolto nel tramandare, a un futuro che sicuramente le doveva apparire lontano da venire, come lei e la sua famiglia fossero nel giusto. O quanto meno, a noi, in prospettiva, come tale sembra: un documento che supera la contingenza per diventare apologia e affermazione di sé al cospetto della Storia.
Del resto, la Cvetaeva si può ragionevolmente dire che fosse ben consapevole, quando tornò in Unione Sovietica da emigrata-fuggitiva, dei rischi a cui sarebbe andata incontro, di fare un salto dalla democrazia alla follia totalitaria. Quasi autocondannandosi, in fondo, persegue “l’ardente desiderio di tutta la mia famiglia” di “una patria e un futuro, il desiderio di lavorare a casa mia”, per certi versi come seguendo un destino più gran a cui si sente chiamata.
La sua lettera al “Compagno Berija” è, più che un vero è proprio gesto di aperta contrapposizione al potere – posizione realisticamente impossibile da assumere –, un modo – questo sì, più disperato della richiesta – per affermare delle ragioni che quel sistema non avrebbe mai potuto comprendere, quelle del cuore. Lo si capisce bene quando parla del marito: “Nel 1911 io incontro Sergej Efron. Abbiamo rispettivamente 17 e 18 anni […] È molto più serio della sua età. Decido subito di non lasciarlo mai più, qualsiasi cosa accada, e nel gennaio del 191 lo sposo”.
Ogni parola sull’uomo e la sua umanità è un qualcosa che – ciò appare tristemente chiaro – non potrà mai essere compresa dalle maglie di un potere sordo e burocraticamente feroce, che certo non può permettersi e non ha interesse ad andare tanto per il sottile: “non soltanto non ha mai fucilato un prigioniero, ma salvato dalla fucilazione tutti quelli che ha potuto […] La svolta nelle sue convinzioni fu causata dall’esecuzione di un commissario, avvenuta davanti ai suoi occhi, e dal viso con cui egli andò incontro alla morte: «In quel momento compresi che la nostra causa non era quella del popolo»”.
Sono grandi e terribilmente segnanti i riconoscimenti che la poetessa scrive riferendosi al suo uomo: “Non so di che cosa sia accusato mio marito, ma so che non è capace di nessun tradimento, doppiogiochismo e slealtà. Lo conosco dal 1911, da quasi 30 anni, ma quello che so di lui lo sapevo fin dal primo giorno: è un uomo di grande purezza, abnegazione e responsabilità”. Ma, purtroppo, qualunque lettera d’amore, si infrange sulla scrivania di chi detiene la forza e ne fa l’uso peggiore possibile.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.