“IL CANTO DELLA BALENA”: UN ROMANZO CHE NON FA PORNOGRAFIA DEL DOLORE (di Matteo Fais)
Il motivo per cui, in Italia, la maggior parte dei romanzi giapponesi restano ignoti non è relativo alle pastoie con i diritti o ai costi di traduzione troppo elevati da una lingua così diversa dalla nostra e poco nota su questo lato del Mondo. Il problema è, semmai, antropologico, di mentalità e costume.
Lo si comprende bene guardando una scena, invero piuttosto marginale, di Videodrome, il noto film di David Cronenberg uscito oramai quasi quarant’anni fa. Max Reen è proprietario di un canale televisivo minore che basa tutta la sua fortuna sull’alto contenuto erotico, quando non proprio a luci rosse, delle sue trasmissioni. Un produttore giapponese gli propone alcuni film espliciti. Lui e i suoi collaboratori provano a visionarne uno, ma scelgono di rifiutare l’offerta perché, a loro avviso, quei filmati risulterebbero troppo raffinati e, soprattutto, non abbastanza volgari per eccitarsi.
Noi italiani, in tal senso, non siamo molto diversi dagli americani. Persino quando si parla di romanzi, di romanzi tormentati, esistenziali, il dolore noi lo vogliamo vedere sbattuto in faccia, ci piacciono i close-up sui genitali della sofferenza, la vista di un patimento pornografizzato. Per questo, Bukowski ha molto più seguito di Carver: uno il malessere lo dice senza mezzi termini, tra un rutto di birra e l’altro; il secondo lo fa aleggiare come un profumo nell’aria, un sentore che si sprigiona dalle parole, senza mai dargli un nome preciso.
I giapponesi, poco ma sicuro, non sono come noi e meno che mai Machida Sonoko col suo Il canto della balena (Atmosphere Libri), un romanzo di rara e commovente delicatezza, una fiaba contemporanea dal potere lenitivo in cui non si indulge mai volutamente sulla tragedia nello squallido tentativo di impressionare (“A me basterebbe poter vivere di ricordi. Ci son persone che riescono a vivere tramutando parole ascoltate una sola volta in un diamante eterno, che poi si tengono stretto stretto. Anch’io volevo essere così […] Ma io non avevo un animo abbastanza nobile per poterli trasformare in un diamante”).
Il libro è la storia di Kiko e Itoshi, una donna e un ragazzino, entrambi vittime di violenza e soprusi da parte dei famigliari più stretti. Una ha un doloroso passato da dimenticare, l’altro un avvenire negato da costruire. Lei è praticamente rimasta sola, dopo aver dato un taglio netto alla sua vita precedente ed essersi trasferita in un’altra città; lui, a seguito di un trauma subito, è talmente sconvolto da non riuscire più a proferire parola, trovandosi così chiuso entro un mutismo inscalfibile. Tra i due nascerà una profonda amicizia che, da parte della più grande, è anche un tentativo di riscattare tutti i suoi errori precedenti.
Il loro rapporto, fatto più di silenzi e di sguardi, di volontà di penetrare l’uno il segreto dell’altro, ricorda molto da vicino quel che Primo Levi dice, in I sommersi e i salvati, contro i teorici dell’incomunicabilità, ovvero che comunicare si può e si deve, perché gli esseri umani sanno riconoscersi anche al di là di un linguaggio comune e condiviso (“Quel ragazzino aveva il mio stesso odore. Quello di chi non è stato amato dai proprio genitori ed è solo. Era quell’odore che gli aveva rubato le parole? È un odore sgradevole. Puoi lavarti quando vuoi, non va mai via. L’odore della solitudine non proviene dalla pelle o dalla carne, ma è radicato nel cuore. Se qualcuno mi dicesse di essere riuscito a liberarsene, penserei che sia un pazzo […] Ma ci sono esseri umani che pur provando disgusto per quell’odore che gli punge sempre e per sempre le narici, vanno avanti tenendosi stretta quella pozzanghera melmosa. E io sono una di quelle”).
Da notare che l’opera è tutto fuorché il solito romanzo imbevuto di propagandismo contro la violenza domestica, il bullismo e via dicendo. Anche perché, più di tutto, qui si ricerca la narrazione in luogo della tirata moraleggiante fondata sull’ovvietà, stile “la violenza è brutta e sbagliata”. Ciò si evince anche dalla magnifica e struggente metafora della balena, “la balena più sola al mondo” scoperta da Bill Watkins, un biologo marino che registrò il solo esemplare dal canto a 52 hertz, il cui suono i due protagonisti ascoltano, a mezzo di un lettore mp3, per trovare sollievo dalla loro solitudine, evidentemente identificandosi con quell’animale che gorgheggia abbandonato negli abissi, senza che la sua voce possa essere percepita dai propri simili.
Il canto della balena, con il suo tocco tenue e una prosa placida che non tenta mai di farsi sentire alzando i toni, circonfonde il lettore con la sua grazia e un senso di speranza tutt’altro che scontato. Scorrere le sue pagine è come sentire una mano posarsi dolcemente sulla nostra, senza che questa ci pesi mai addosso.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.