QUELLA SUPERIORE DEPRAVAZIONE DI TANIZAKI – SULLA NUOVA TRADUZIONE DI UN CLASSICO, “LA CHIAVE” (di Clara Carluccio)
Anche una donna dalle sembianze passive può nascondere un potenziale altamente distruttivo. Quando poi è l’uomo stesso ad amare e desiderare l’annientamento, diventa impossibile arretrare da tale spirale demoniaca.
Ecco l’inconfondibile scenario creato da Jun’ichirō Tanizaki in uno dei suoi romanzi più rappresentativi, quanto scioccanti, per la sua epoca – e, onestamente, anche per i nostri giorni, se non altro, per il modo in cui viene descritto -, La chiave, recentemente proposto in una nuova traduzione da Neri Pozza, a sessantasei anni dalla pubblicazione. Si tratta di un testo senza precedenti, in cui ogni aberrazione si fa toccante, chiamando a una lasciva complicità il lettore, il tutto senza mai scadere in quella viziosità un po’ all’amatriciana che invece impera nella nota trasposizione per il grande schermo proposta da Tinto Brass.
Un matrimonio logoro, che si protrae per triste inerzia, prende una svolta lussuriosa e pericolosamente ambigua, dopo che la moglie trova a terra – non proprio casualmente – la chiave che dà accesso al diario segreto del coniuge. Inizia così a sorseggiare regolarmente i pensieri più scabrosi di lui, lasciando emergere anche i propri. Parallelamente, il marito fa altrettanto con il diario della donna, volutamente occultato solo in modo parziale. I testi privati perdono così di autenticità, venendo scritti con l’intento di far arrivare all’altro il proprio messaggio.
Si viene a creare questo doppio infingimento fondato su accurate premeditazioni: “detesto che gli altri si azzardino a curiosare nel mio animo, ma non disdegno di curiosare in quello altrui […] mi piace fingere di non sapere persino ciò che so”. Una sola frase che racchiude molta dell’astuzia femminile. È la confessione della donna, colei che nel suo diario, invece, si definisce una persona “leale e riservata” che sa distinguere “ciò che è lecito sapere da ciò che non lo è“.
Non meno contraddittorio il marito che descrive la compagna come “una donna chiusa per natura e incline alla falsità“. Eppure la venera in ogni suo aspetto e dettaglio fisico, fino a perdere sé stesso: “amo mia moglie con tutto il cuore […] Che sia un bene o un male, continuo a provare una passione sfrenata per lei“. Sarà un male, a tutti gli effetti.
Ma quanto ci si può definire vittime del proprio dolore, quando lo si cerca e lo si ama? Tanizaki è stato tra i più grandi nel descrivere le ossessioni e le turbe erotiche che uniscono sofferenza e magia, croce e delizia: “io stesso desideravo crogiolarmi ancora un po’ nell’incertezza, aggirandomi contento nel mondo delle ipotesi […] sento ardere in me una gelosia e un’indignazione che scatenano una lussuria insopprimibile. Se in un modo o nell’altro afferrassi la verità, questo abominevole e vizioso incanto finirebbe seduta stante“. Quest’uomo, non solo trae appagamento da situazioni falsate e da persone estranee alla coppia, ma esprime anche una vocazione al feticismo che la moglie, nonostante la consideri una tendenza ripugnante, inizia stranamente a soddisfare: “Durante la notte mi sono divertita a far sporgere le dita del piede sinistro da sotto le coperte […] Lui ha mostrato un’eccitazione fuori dalla norma di fronte a un evento che aveva del miracoloso“. È proprio vero, mentre l’uomo si eccita, la donna si diverte.
In un contesto culturale in cui una moglie è tenuta ad essere ubbidiente e remissiva, il sesso rimane il punto debole con cui l’uomo rischia di alterare il proprio ruolo di apparente comando, divenendo uno schiavo a tutti gli effetti, succube della donna e del proprio desiderio.
Questo non deve confondere con la mera pratica del cuckoldismo, tanto in voga in ambito progressista, la quale fonda sé stessa unicamente su un senso di colpa costruito ad arte per depotenziare l’uomo, riducendolo ad un fantoccio senza dignità. Tanizaki esprime in modo sublime e poetico il suo sentire stralunato e perverso, immergendolo nell’acqua benedetta della sacralità più torbida e oscura. Possiede, in tal senso, una caratura lirica e psicologica incomparabile, incomprensibile alla modernità così tediosamente pornografica.
Ma niente, come l’eccitazione, si dissolve tanto in fretta. Il protagonista, quando se ne accorge, deve pensare a modalità sempre più audaci per rifuggire l’assuefazione. Mantiene il comando solo chi conserva il giusto distacco, altrimenti, si rischia di soccombere. Infatti, quanto disprezzo ci vuole per accettare di soddisfare una persona che, pur di inseguire il piacere massimo, approva e persegue l’autodistruzione?
I personaggi di Tanizaki seguono pulsioni smaniose e ribollenti sotto le loro quiete sembianze. E, come loro, molte persone comuni.
Clara Carluccio