“SERGE”, IL NUOVO ROMANZO DI YASMINA REZA, È LA FINE DELLA GRANDE LETTERATURA, PROPRIO COME L’ULTIMO DI HOUELLEBECQ (di Matteo Fais)
Oggi come oggi, a passare di fronte a una libreria, c’è da prodursi in gesti scaramantici come quando si vede l’insegna “Agenzia Funebre” o l’allarmante sirena dell’ambulanza fende il placido borbottio della via. La Grande Letteratura, o perlomeno quella che tutti reputano tale, fatica a dare vita a un romanzo che non sia già nato morto, che non puzzi di decomposizione prematura, prima ancora di arrivare sugli scaffali.
Oramai da tempo, i testi più quotati sono buoni solo per esercitarsi nell’arte della stroncatura – quella che introduce sempre il sospetto di un’invidia patologica, da autore mancato, verso il recensore. Purtroppo, se di rosiconi ce ne sono realmente tanti in giro per le redazioni, è anche vero che la produzione narrativa attuale, almeno quella dei nomi più blasonati, fa pietà e, dunque, presta loro facilmente il fianco per pugnalate e fendenti mortali.
Dopo Banana Yoshimoto, Amélie Nothomb, Michel Houellebecq, anche Yasmina Reza ha partorito il suo aborto di illeggibilità, Serge (Adelphi). Quando sei l’autrice di alcune tra le opere teatrali più belle e geniali del nuovo millennio, come Il Dio del massacro – magnificamente trasposto per il grande schermo da Roman Polanski, con Carnage – e Bella figura, certe cadute di stile non ti possono proprio essere perdonate.
Lei, che ci aveva abituati a testi scarni e scoppiettanti in cui, con sottigliezza chirurgica e una tensione da mozzare il fiato, aveva indagato il costante rischio di tutto ciò che è civiltà di mutarsi in inciviltà, licenzia adesso un romanzo sfocato e ideale solo per vincere l’insonnia sprofondando in un sopore catacombale.
Il testo è, in estrema sintesi, la storia di una famiglia ebrea, ma di quelle non propriamente ancorate ai valori tradizionali e, più che altro, come si usa dire oggi, disfunzionale – invero, moderatamente tale, senza troppi eccessi, come appunto capita anche nelle migliori famiglie.
I personaggi principali sono tre. Jean, che funge anche da narratore, un uomo così medio da dare quasi fastidio e la cui prospettiva è tanto insignificante da riflettersi, con nefasti effetti, persino sulla prosa. Nana, la sorella umanitaria e crocerossina, sempre attenta a empatizzare con tutti e dunque irritante come una piattola dei buoni sentimenti. Infine, c’è Serge, protagonista incontrastato, per quanto circondato da così tanti comprimari da far venire il mal di mare nel loro presentarsi lungo lo sviluppo narrativo. Lui è l’unico che, con la sua cupio dissolvi molto borghese, sospesa tra disillusione e nichilismo da uomo di mezza età, riesce a tirare fuori qualche stoccata involontariamente divertente, ravvivando la banalità e il melenso con un poco di sano veleno da scorpione d’appartamento.
In un racconto che fatica a trovare il suo percorso, saltando da un quadretto di vita all’altro dei vari personaggi secondari, i punti fermi sono tre. Il primo è il decesso della madre, quella che “Da quando è morta tutto è andato a rotoli. La sgangherata baracca della nostra famiglia eri tu a tenerla in piedi”. Tutto il suo sforzo si sostanzia nel non retrocedere mai dall’usanza del consueto pranzo domenicale noioso e farcito di discorsi vuoti – insomma, niente di strano, tutti i pranzi di famiglia lo sono. Per il resto, di lei si sa che il marito la considerava un’antisemita, poiché profondamente disinteressata alle usanze del popolo ebraico e alla loro proverbiale autocommiserazione (“aveva la tendenza così poco contemporanea a non essere per nessuna ragione al mondo una vittima. Sicché non amava quello Stato la cui essenza consisteva per lei nell’esporre agli occhi del mondo una cicatrice indelebile”). Altra chicca è che la vecchia ha un calendario di Vladimir Putin, per cui nutre un debole in quanto “trovava che avesse gli occhi tristi” – considerazione che buttata lì così, senza darle seguito, ha la consistenza del nulla.
Altro punto vagamente vivace, verso la metà del romanzo, è quando i tre fratelli, con i rispettivi figli, decidono di recarsi ad Auschwitz, soprattutto sotto la spinta di Joséphine, la figlia di Serge, truccatrice che, per dirla col padre, cerca di rimediare “ad anni di insipienza”, fissandosi in quel momento con la cultura ebraica d’origine. Infatti, la cuspide dell’opera sta tutta nelle poche battute in cui un Serge decisamente spazientito tuona contro la ragazza e, in un certo senso, contro la farsa imperante, derivante dal politicamente corretto, del “feticismo della memoria”: “Che roba è la Judenrampe? Mi stracciate i coglioni con questa Judenrampe». «È dove è arrivata la maggior parte degli ebrei». «Occhèi. La vedo. Dalla macchina vedo tutto». «Ti sto solo dicendo cos’è». «Mi stracciano i coglioni tutt’e due con la loro smania di rimpinzarsi di infelicità». «Potresti essere più carino con Jo». «È un’ossessiva. Ieri l’accademia delle sopracciglia, oggi lo sterminio degli ebrei. Devono seguirla tutti nei suoi deliri. Per il resto è una ragazza che non dà segni di vita tranne quando vuole soldi o un appartamento»”.
In ultimo, rimane solo il momento in cui il protagonista scopre – cosa oltremodo ovvia – che tutto il suo astio e male di vivere hanno preso la forma di un cancro. Per il resto, esulando dalle poche battute appena stuzzicanti e che costituiscono sì e no il cinque percento del tomo, l’opera sembra non entrare mai nel vivo, non avere un inizio e una fine netti, smarrendosi in un dedalo di scambi, descrizioni e dialoghi tediosi senza via d’uscita. Rispetto ai lavori teatrali della Reza, il paragone è imbarazzante. Se sui giornali gli elogi si sprecano, è unicamente perché il nome dell’autrice solleva a priori il lavoro da qualsiasi biasimo, in ciò dimostrando non solo la morte della letteratura, ma della critica, ormai ridotta a pubblicità.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha collaborato con varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, “VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.