ELOGIO DI TOLKIEN, CONTRO LA MODERNITÀ E IL SOCIALISMO (di Davide Cavaliere)
Intorno a Tolkien si è scritto moltissimo. Il filologo britannico è universalmente riconosciuto come uno dei grandi scrittori del secolo scorso; un autore capace di far rivivere il mito e i suoi temi eterni. Ci si è domandati se dietro a questo interesse per l’opera tolkieniana, che non accenna a diminuire, si celasse una determinata visione politica.
Sebbene Tolkien non abbia mai aderito ad alcun partito politico e il suo pensiero risulti difficile da etichettare, senza dubbio può essere ricondotto nell’alveo di un cattolicesimo conservatore, nemico di tutti i filantropi senza scrupoli animati dal desiderio di imporre, spesso con la violenza, la propria utopia politica. Questo scetticismo, unito a un amore sincero per la realtà e la natura, terrà Tolkien lontano dal nazismo, dal comunismo, ma anche dagli economisti e dagli scienziati sociali votati al benessere dell’umanità.
Le prime riflessioni dello scrittore sulla società possono essere ricondotte al trauma causato dalla distruzione dei boschi, tanto cari a Tolkien, per fare posto al cemento e ai mattoni rossi degli edifici industriali. Il rifiuto tolkieniano della modernità maturerà, pienamente, durante la Prima guerra mondiale. Mandato a combattere sulla Somme, rimarrà atterrito da quella che Raymond Aron ha chiamato sorpresa tecnica, ossia l’inaspettato massacro industriale dei soldati e del paesaggio circostante.
L’orrore per la modernità devastatrice, per la sua capacità di consumare tutto, alberi e uomini, troverà spazio nella sua opera più celebre, Il Signore degli Anelli. Guerra e industria sono intimamente connesse, come dimostra lo stregone Saruman che, per alimentare le fornaci in vista della guerra, distrugge una parte consistente della foresta di Fangorn.
Tolkien non amava la lotta. Era pacifico, non pacifista, come dimostrano le parole che mette in bocca a uno dei personaggi più luminosi della sua opera, Faramir, «La guerra è indispensabile per difendere la nostra vita da un distruttore che divorerebbe ogni cosa; ma io non amo la lucente spada per la sua lama tagliente, né la freccia per la sua rapidità, né il guerriero per la gloria acquisita. Amo solo ciò che difendo: la città degli Uomini di Númenor; e desidero che la si ami per tutto ciò che custodisce di ricordi, antichità, bellezza ed eredità di saggezza. Non desidero che desti altro timore che quello riverenziale degli Uomini per la dignità di un anziano saggio».
Sebbene affascinato dall’eroismo e dall’epica cavalleresca, nelle opere di Tolkien il bene trionfa attraverso l’esercizio di virtù quotidiane: umiltà, cura degli altri, compassione e bontà. Si tratta di valori che lo accomunano ad altri scrittori del Novecento, quali Vasilij Grossman, Romain Gary e Primo Levi.
Può sembrare ardito accostarlo Vasilij Grossman, eppure vi sono delle somiglianze significative, che vanno oltre il rifiuto dei formicai totalitari. Gli eroi di Grossman, così come quelli di Tolkien, sono «umani» in senso profondo: tendono al bene, ma sono tentati dal male. Il campo in cui si posizionano dipende dalle loro scelte. Lo scrittore inglese, al pari di quello russo, celebra la bontà. Una bontà «insensata» che si rivolge anche al nemico: Théoden che rifiuta di uccidere il traditore Grima, Sam che risparmia Gollum alle pendici del monte Fato.
Le virtù «comuni» delle creature tolkieniane – la memoria, la discrezione, il senso della misura, l’amicizia, la pietà – sono le stesse che permettono a Levi di sopravvivere nella terra di Mordor di Auschwitz-Birkenau, altro luogo di morte tecnica e industriale. Nel romanzo La tregua, lo scrittore torinese riferisce di Hurbinek, «che aveva tre anni e forse era nato in Auschwitz e non aveva mai visto un albero». Il bambino non ebbe tempo né di vedere gli alberi né di accedere alla dimensione verbale. Un destino che avrebbe terrorizzato Tolkien, amante della natura e dei linguaggi.
L’antipatia viscerale dello scrittore inglese per il mondo moderno non fa di lui un marxista, tutt’altro. Alla fine de Il Signore degli Anelli, gli hobbit tornano a casa, nella Contea, per scoprire un paesaggio devastato da capannoni squallidi, strutture industriali anonime e da un governo «socialista» che impone regole minuziose e «condivisioni» onerose. Il cattolico Tolkien diffidava dello stato moderno («Arresterei chiunque usi la parola Stato») e di tutte le forme di potere che intendono controllare (basti ricordare l’occhio di Sauron che tutto vede) pianificare, formalizzare, organizzare la vita degli uomini e incoraggiare sprezzanti esperimenti di riforma della società secondo idee di ordine razionalista.
Tolkien credeva in Dio, nella prudenza, nella consuetudine, nella spontaneità delle norme sociali, nelle antiche libertà, nella bellezza sonnolenta dell’erbosa campagna inglese. A lui si adatta alla perfezione quella frase di Boris Pasternak che recita: «L’arte è nell’erba e bisogna avere l’umiltà di chinarsi a raccoglierla».
Davide Cavaliere
L’AUTORE
DAVIDE CAVALIERE è nato a Cuneo, nel 1995. Si è laureato all’Università di Torino. Scrive per le testate online “Caratteri Liberi” e “Corriere Israelitico”. Alcuni suoi interventi sono apparsi anche su “L’Informale” e “Italia-Israele Today”. È fondatore, con Matteo Fais e Franco Marino, del giornale online “Il Detonatore”.