SQUID GAME NON È ANCORA GUARDARE IN FACCIA IL MALE (di Matteo Fais)
“Sai, la gente è strana”, dicono i bellissimi versi di quella canzone interpretata da Mia Martini. Per prenderne atto, basta guardare ciò che attira la sua attenzione. Certo si tratta di qualcosa che, è appena il caso di ricordarlo, spesso viene suggerito da un algoritmo che tutti accolgono quasi con gratitudine e accettano senza la minima percezione della subdola invadenza tecnologica.
Sì, i gusti della gente lasciano sconcertati – più o meno come la gente stessa, in carne e ossa. Qualche anno fa abbiamo avuto il raptus per le Cinquanta sfumature di grigio, rosso e nero che ha lasciato basiti tutti quelli dotati di un minimo di materia grigia. Come potevano persone delle più diverse latitudini e longitudini, un’umanità tutto sommato banalissima, da Hong Kong a New York, passando per Palermo, emozionarsi per le vicende di un ricco sadico e una studentessa che si fa frustare, legare e chiavare senza soluzione di continuità? Mistero della fede.
A suo tempo, lessi quelle pagine, per cercare di capire, provando a mettere da parte i pregiudizi, ma senza, in ultimo, trovare alcuna soluzione all’enigma di come una versione da telenovela di Venere in pelliccia di Leopold von Sacher-Masoch potesse tenere incollata alla poltrona, per più di 500 – troppe – pagine, anche chi in vita sua non aveva mai preso in mano un qualsivoglia romanzo.
La stessa vocazione al martirio e all’inutile tentativo di esegesi del genere umano, mi ha spinto a prendere visione, sull’odiata piattaforma di Netflix, di questa serie che, a quanto pare, sta al momento spopolando nel mondo: Squid Game.
La storia è semplice. In una Corea molto occidentale, tutta una serie di disperati, messi in ginocchio da una realtà in cui, come da noi, vale solo il principio dell’articolo quinto – “Chi ha gli sghei ha vinto” –, un’organizzazione ignota offre un mucchio di soldi per partecipare a dei giochi infantili, in cui chi perde si ritrova un proiettile in piena faccia.
Le puntate, c’è poco da dire, sono girate in modo tecnicamente impeccabile – con i soldi di una produzione simile, chiunque porta a casa un buon risultato. L’intreccio è caratterizzato da una manichea divisione tra Bene e Male – l’organizzazione e i suoi inquietanti guardiani dei giochi da una parte, con i poveri partecipanti dall’altra – che aiuta enormemente lo spettatore medio, sempre alla ricerca di una realtà semplice e netta che la vita non gli saprà mai restituire – quando una vittima non è anche un po’ carnefice e viceversa?
Forse è proprio questo ad aver determinato il successo della serie. Tutto è trasparente, i ruoli sono rigidi e senza scampo. Come i giochi che i diseredati devono affrontare per sopravvivere, anche l’immaginario di riferimento è profondamente infantile. Angeli e demoni, vittime e assassini, crudeltà e umanità. Peccato che il mondo sia leggermente più complesso di così, come ci insegna la grande letteratura, dal Saramago di Cecità al Cormac McCarthy di La strada. Chiunque voglia dormire sogni tranquilli, non osi mai pensare a cosa potrebbe fare dopo tre giorni di inedia, o se il figlio giacesse moribondo su un letto di ospedale e gli organi di un coetaneo vivo e vegeto potessero salvarlo. Non fatelo, perché da certi pensieri non esiste ritorno e, se si guarda troppo a lungo nell’abisso, anche l’abisso guarderà in noi. Ogni mela, apparentemente sana, può contenere o sviluppare al suo interno il verme che la consumerà facendola marcire.
Squid Game trionfa perché ancora non mette l’essere umano al cospetto della sua oscena miseria, alla disperazione che nasce dal constatare la forza dell’immoralissimo istinto vitale. L’uomo che non vuole contare i cadaveri sui quali passerebbe, pur di avere salva la nuda vita, guarderà le puntate come si consuma una innocua emozione liofilizzata di quelle che le tante piattaforme streaming ci forniscono quotidianamente, giusto per distrarsi, prima di andare a letto.
Colui che riesce a fuggire l’orrore immondo di esistere, a non rispondere, per dirla con Pasolini, “del selvaggio dolore di esser uomini”… Ecco, per lui, questa serie è perfetta. Si alzerà dal divano, senza che gli tremino le ginocchia, stabile sulle gambe e nella sua borghese certezza di non essere il reprobo, ma quello nel giusto. Poi, il giorno dopo, sordidamente gioirà vedendo che il collega viene respinto, alla mensa aziendale, perché non ha il green pass. A lui, il male fa comodo vederlo irreale come uno spettacolo on demand.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha scritto per varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.