CONTRO L’EUTANASIA – NON SIAMO NATI PER ESSERE CONSUMATORI (di Davide Cavaliere)
Oltre un milione di firme sono state raccolte per il referendum sull’eutanasia. A votare, sottolinea la Fondazione Luca Coscioni, promotrice del referendum, sono state soprattutto le giovani donne.
Una tale partecipazione ci conferma che la sofferenza e la morte sono diventate inaccettabili e impensabili. Dietro alla presunta filantropia del “morire con dignità” si cela tutto il terrore dei moderni per la malattia, la disabilità, il dolore e le ineliminabili imperfezioni dell’umano. Proprio queste, però, sono le situazioni limite che interrogano la condizione umana e che una società euforica e adolescenziale tenta, disperatamente, di rifuggire.
Il cristianesimo aveva dato alla morte un significato. Esso forniva un’ermeneutica della fine, mentre il secolarismo lascia gli individui disorientati. Di conseguenza, la morte è stata banalizzata, ha compiuto la sua ascesa verso l’irrilevanza. Abbiamo disimparato a morire. Come ha detto il filosofo Robert Redeker: “Da quando non abbiamo imparato a morire, non abbiamo imparato a vivere. In tempo di pace disperiamo, disumanizziamo, in tempo di guerra, di sventura o di afflizione, speriamo, umanizziamo“.
L’arte, che è sempre lo specchio della società che la produce, non fa altro, come ricorda Jean Clair, che mettere in mostra cadaveri, mutilazioni, deformazioni. Il corpo è stato desacralizzato, come la morte, e si è smarrita qualunque forma di pietà nei confronti del morente, del defunto e la ritualità connessa al trapasso. Il cadavere è considerato uno scarto, un materiale da bruciare come un rifiuto, come dimostra il sensibile aumento del numero delle cremazioni.
Il postmodernismo doveva liberare la vitalità repressa dell’umanità, ma si è tradotto in mero orrore della morte e del dolore. L’eutanasia serve a una società edonista a sbarazzarsi in fretta del morente, affinché non turbi troppo il divertimento e il consumo altrui. Il mondo contemporaneo deve alimentare l’illusione di una vita staccata dalla morte e dalla malattia. Sempre più persone crescono nell’ignoranza della finitezza umana che, come sentenzia giustamente Michel Houellebecq, è ridotta a “rumore di fondo che si insinua nel suo cervello man mano che progetti e desideri vanno sfumando”.
L’economia del mondo occidentale si fonda sull’eterna modificazione delle stesse cose: innovare, cambiare, ammodernare. Ma sono tutti tentativi di allontanare la presenza inquietante del disfacimento. La morte è dunque il limite contro cui si scontra la società di mercato. Essa rivela l’impostura. Nascondendo la morte, la società liquida induce un disarmo morale. Rende inconcepibile il dolore e il limite. Come quel personaggio di La montagna incantata di Thomas Mann, Mynheer-Pieter Peeperkorn, abbiamo messo al centro della nostra vita il piacere, ma una volta sopraggiunta l’impotenza, ricorriamo al suicidio.
La fine della morte, la fuga davanti al dolore nostro e degli altri, determina la fine dei valori umanistici. Eutansia significa affermare, implicitamente, che l’unica vita degna è quella sana, incorrotta, felice. Un atteggiamento che va di pari passo con l’igienismo imperante e la sua ambizione a un’esistenza asettica e pianificata. Ci si dimentica che è per mezzo della morte e delle tombe che si acquista la propria umanità e si realizza una comunità di affetti. Vegliare sullo scandalo della morte, accompagnare il morente è uno dei doveri a cui è chiamato l’essere umano. Come ha scritto Roland Barthes: “Poco importa per me sapere se Dio esiste o no, ma quel che so e che saprò sino all’ultimo è che non avrebbe dovuto inventare insieme amore e morte“.
Si ama più intensamente e si sta accanto a ciò che va morendo. L’eutanasia appare come una volontà di sbarazzarsi frettolosamente di ciò che è debole e moribondo. Mentre ciò che caratterizza la civiltà è la cura, la compassione, il rispetto della debolezza. I sostenitori dell’eutanasia dicono che il loro modello è l’Olanda. Noi affermiamo che l’Olanda è il paese più barbaro d’Europa.
Il “New York Times” e le più importanti riviste mediche del mondo, tutte a favore della pratica in questione, hanno scoperto che, nelle cliniche della morte olandesi, centinaia di malati fisici e psichici (depressi, ciechi, disabili, malati di Alzheimer, autistici, col Parkinson, schizofrenici, affetti da gravi disturbi alimentari…) hanno trovato la morte con l’eutanasia. Dove sono la cura? La pietà? Le terapie?
Il compito del medico non è organizzare e predisporre una vita sana, ma alleviare le sofferenze. Come ha scritto un grande medico ebreo, laico, Lucien Israël: “Anni di faccia a faccia con la malattia mi hanno insegnato che quella di guarire non è l’unica richiesta del malato grave. Talvolta dentro di sé egli sa che questo non è possibile, ma ha bisogno di incontrare degli esseri umani che riconoscono, attraverso le loro azioni di cura, il valore sacro della sua vita. Se sente che siamo al suo fianco, il malato riesce anche ad accettare il fatto che la vita umana è limitata e a fare la pace col suo destino. Ma non lo accetta se non c’è qualcuno che si dedica a lui, e ha ragione“.
Di questo abbiamo bisogno. Non della morte comminata per via medica.
Davide Cavaliere
Gran bel articolo