COME VOLEVASI DIMOSTRARE, LA DEMOCRAZIA NON SI PUÒ ESPORTARE (di Davide Cavaliere)
Con il ritiro statunitense dall’Afghanistan termina, in modo definitivo, il sogno di poter esportare e impiantare la democrazia in territorio musulmano o, in generale, extraeuropeo.
La campagna militare in Afghanistan, dopo l’Undici settembre, fu rapida, intelligente e spietata. Gli uomini che la condussero avevano capito la società nella quale operavano. Lavorarono insieme ai signori della guerra per schiacciare i talebani, avendo come obiettivo una vittoria veloce, che sarebbe stata d’esempio per tutti i nemici dell’America. Così fu, i talebani vennero costretti a ripiegare sulle montagne e nelle caverne del Pakistan.
Col passare degli anni, la situazione si è complicata, aggrovigliandosi: alcuni amici sono diventati nemici e alcuni nemici sono diventati alleati. I talebani erano i cattivi, ma proprio come in Siria, lo erano anche tutti gli altri.
L’Afghanistan non è uno stato nazionale come lo immaginiamo noi occidentali. L’Afghanistan non esiste se non come nome. È un microcosmo fermo all’età della pietra; un coacervo di tribù litigiose, gruppi etnici, fazioni islamiche e signori della guerra. Gli afghani non sono “afghani”, sono pashtun, uzbeki, beluci, hazara, sunniti e sciiti, tutto il resto è solo un costume temporaneo. Molti talebani hanno riparato in Pakistan, ma non sapevano di essere entrati in un altro stato. Il confine tra le due nazioni esiste solo sulle cartine geografiche occidentali.
L’abitante medio afghano non pensa di essere “cittadino” di un paese chiamato Afghanistan. Non si preoccupa delle elezioni e, se è un po’ anziano, confonde gli americani con i russi. Le élite al governo sono felici di mascherare la loro presa di potere con titoli presidenziali e costituzioni di cui nessun altro, fuori Kabul, è a conoscenza. L’Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale, ogni tanto, finanzia qualche borsa di studio per le ragazze della capitale, fingendo di aver migliorato la condizione femminile nel paese.
In molti sono stati impressionati dal fatto che i talebani abbiano resistito per vent’anni. Non dovrebbero esserlo. In Afghanistan il “tempo” non esiste. Due decenni di guerra sono terribilmente incomprensibili per gli americani, mentre per gli afghani è così che sono sempre andate le cose. I talebani sapevano che gli americani, come gli inglesi e i russi, prima o poi, se ne sarebbero andati.
È impossibile far fiorire il diritto e le procedure democratiche dove non si riconosce nient’altro che la consuetudine tribale e il letteralismo coranico. Il sistema di governo occidentale è il frutto di oltre duemila anni di storia europea, non potrà mai attecchire nelle sassaie dell’Asia centrale.
Le conquiste occidentali sono universali nel senso che appartengono a chiunque voglia farle proprio ma, per l’appunto, deve desiderarle. La democrazia non può essere imposta.
Dopo vent’anni di guerra e miliardi di dollari spesi, l’Afghanistan si appresta a ritornare ciò che è sempre stato: un buco nero di tribù in lotta tra loro, oppio e jihad. Forse, arriveranno i cinesi ma, non diversamente dai russi e dagli americani, saranno costretti ad andarsene.
Davide Cavaliere
L’AUTORE
DAVIDE CAVALIERE è nato a Cuneo, nel 1995. Si è laureato all’Università di Torino. Scrive per le testate online “Caratteri Liberi” e “Corriere Israelitico”. Alcuni suoi interventi sono apparsi anche su “L’Informale” e “Italia-Israele Today”. È fondatore, con Matteo Fais, del giornale online “Il Detonatore”.