VI RACCONTO LA MIA DISAVVENTURA IN OSPEDALE – LA SANITÀ ITALIANA È MORTA (di Matteo Fais)
Ho uno squarcio in fronte, vicino alle sopracciglia. È netto, sembra lo sfregio di un’arma da taglio. Lo è, in un certo senso. Diciamo che ho avuto un’accesa discussione e sono rimasto ferito da una caffettiera in piena faccia. Ma ciò poco importa, adesso.
Grondante sangue, corro in tutta fretta al pronto soccorso più vicino. Mi accolgono le guardie giurate e mi fanno sedere all’aperto, sotto il sole a picco. Dopo un minuto, arriva un infermiere. “Lei è vaccinato?”. Ma che cazzo c’entra, mi chiedo. “No”, risposta secca. “Eh, guardi, ci sarà da aspettare molte ore e le devo precisare che sono pieno di positivi in reparto quindi, dopo che l’avranno assistita, dovrà fare un tampone”. Con la manina, lo saluto affettuosamente e vado in cerca di un altro manicomio.
Sono costretto a recarmi fuori città, in una gigantesca struttura, una cittadella universitaria, detta il policlinico. Ovviamente, anche lì devo comunque indossare la mascherina che, nel mentre, si è ridotta a uno straccio rosso, ma mi rallegra, per quanto lo si possa essere in quei momenti, vedere che la gente in fila è poca.
All’accettazione, mi è stato chiesto nuovamente se fossi vaccinato e, data la mia risposta negativa, sono stato sottoposto alla misurazione della temperatura. Finisco in sala d’attesa. Bene, considerata la scarsa presenza umana, spero di potermela sbrigare in un paio d’ore e con qualche punto. So già che probabilmente rimarrò con una cicatrice da pirata a vita, ma l’unica cosa che sogno in quel momento e di andare fuori dalle palle, via dall’ospedale – anche perché il covid esiste, è in giro tra noi, e non vorrei prendermelo stando in mezzo al luogo meno indicato per gli assembramenti.
Ho con me solo il cellulare e, mentre cazzeggio su Facebook, sento il mormorio della gente intorno che si lamenta. Chi ha avuto un attacco di vertigini ed è lì dalle 9 di mattina; chi, con un blocco intestinale, dalle dieci. Sbuffano, sospirano, inveiscono a mezza voce. Qualcuno grida a una dottoressa di passaggio: “Signora, ma insomma, quanto ci vuole, dannazione? Aspetto da stamattina”. Niente, nessuno sa niente, nessuno riceve informazioni o rassicurazioni.
Il tempo scorre lento ma, grazie al cielo, inesorabile. Dopo due ore, da una delle due porte che conducono nel paese delle meraviglie, sbuca fuori un’infermiera. Mi chiede quale sia il problema, se sia svenuto, e mi rimanda a breve. Passa un’altra ora e mi fa un cenno – non proprio gentile, non proprio educatissimo, ma l’atmosfera dell’ospedale genera una strana intimità tra derelitti.
Entro e, subito accanto alla porta, c’è una poltroncina medica, decisamente consunta, su cui lei e il suo collega mi invitano a sedermi. In fondo, sulla destra, a pochi metri, scorgo uno stanzone pieno di letti. Ognuno è coperto da dei tendaggi, quindi vedo solo braccia e gambe di degenti e, così – a sensazione direi -, capisco che non devono stare particolarmente bene.
“Ma quelli…?”, faccio alla tipa. “Sono malati di covid. Non sappiamo più dove metterli”. Deglutisco con fatica una bestemmia e, ipocondriaco come sono, già mi vedo intubato… Non è che mi disturbi tanto l’idea del respiratore, ma il pensiero della promiscuità. Detesto la gente, la vicinanza e gli ospedali. Vorrei morire da solo, su una spiaggia illuminata dal sole – fanculo alle corsie.
“Sei vaccinato?”. Eccola che parte. Potrei avere un infarto in corso che quello sarebbe, comunque, il suo unico problema. Sto per chiederle se lei, invece, lo prenda in culo, visto che siamo in vena di confidenze tra amici e la ragazza è molto giovane. “No”. “Perché no?”. “Non è capitato. Avevo altro a cui pensare”. “Siete tutti matti, dovete vaccinarvi”. Ho i coglioni che girano come eliche di un transatlantico in mare.
“Cosa ti è successo? Qui c’è scritto che hai sbattuto contro uno spigolo, ma non mi sembra”. “Ho mentito, infatti. Ho solo avuto un acceso scambio di vedute filosofiche che si è concluso con una caffettiera”. I due giovani infermieri sghignazzano divertiti. Ci sta.
Finalmente, mi viene disinfettata la ferita e posto un cerotto sopra. “Hai fatto l’antitetanica?”. “Non ne ho idea. Forse, da bambino”. “Scade dopo dieci anni”. Vedo già un ago che mi penetra e ho paura. Preferirei prendere un’altra botta in testa.
“Ti dovranno mettere dei punti”. Le sorrido. Sono stanco e mi sento di accettare di buongrado la cosa. “Ma lo farete voi?”. “No, devi aspettare di essere chiamato”. Per due punti? Che palle! Torno in sala.
Beh, ve la faccio breve. Alle 21:30, nessuno ha ancora chiamato il mio nome. Ho solo sentito infermieri e pazienti parlare benissimo dei vaccini e malissimo degli egoisti come me che non si sono fatti iniettare il siero magico. Decido a quel punto che non me ne sbatte più una sega e che mi terrò il segnaccio in faccia per il resto della mia miserabile esistenza. Saluto tutti ed esco. Lì fuori, c’è ancora un ragazzo in ambulanza, da ore, vittima di una caduta dalla moto, che aspetta un tampone per essere visitato. Ci scambio due parole. Con lui ci sono i volontari dell’ambulanza. Evidentemente, sto loro simpatico perché mi dicono “Non ti hanno visitato, vero? Fanno sempre così. Non gliene fotte niente. Senti, vai alla guardia medica e pregali di assisterti”. Cazzo, e nessuno poteva dirmelo prima? Li ringrazio e parto.
Alle 22, sono sul posto. Ci metto mezz’ora per trovare l’ingresso che mi sembra quello di un giardino privato – ovviamente, non c’è neppure l’ombra di un’indicazione. La guardia mi fa aspettare sulla porta per questioni di sicurezza – ah, già, il covid!
Esce una dottoressa. “Lei è vaccinato?”. Cristo santo, ma è un mantra, una preghiera, sta storia dell’inoculazione, o ce l’hanno tutti con me? Mi ricorda il “vai con Dio, figlio mio”, di nonna, quando ero bambino.
Mi vengono poste circa 40 domande, del tipo se ho avuto contatti con positivi, se ho sofferto di diarrea, febbre, assalti notturni del demonio, se il covid-19 mi è apparso durante una seduta spiritica. “Scusi, non capisco il perché di questo interrogatorio”. “È prassi”. Ah, ok.
Entro nella sala più brutta che abbia mai visto. Sembra la stanza di una casa abbandonata degli anni ’50, ma quantomeno si prendono subito cura di me. “Mi metterete di punti, Dottoressa?”. “Oramai è troppo tardi e potremmo solo peggiorare la situazione. Io, poi, non so cucire e non ho neppure gli strumenti”. Ottimo! Ho capito, mi terrò il segno a vita.
Tira fuori un siringone che ci potrebbe stare la droga per un elefante. “Ma non mi vorrà fare il vaccino, prima di medicarmi?”. “No, no, stia tranquillo, si tratta solo di soluzione fisiologica per disinfettare”. Tiro un sospiro di sollievo. Lei e la sua collega armeggiano sulla mia faccia. Sdraiato sul lettino, le vedo come se fossi il protagonista di un film. Hanno guanti di plastica. Non mi possono toccare. Immaginate quanto c’è voluto per fare una cazzata come mettere due cerotti.
“Secondo lei, mi rimarrà la cicatrice, Dottoressa?”. “Beh, guardi, certo, sarebbe stato meglio intervenire con maggiore tempestività. Comunque io non glielo so dire, dipende tutto dalla sua cicatrizzazione. A ogni modo, andrei a sentire un chirurgo estetico”. Già mi vedo col volto tirato alla Berlusconi versione Mao Tse-tung.
Dopo avermi raccomandato di non bagnare la ferita e sostituire il cerotto esterno, ho ringraziato e teso la mano. Si sono tirate indietro, neanche avessi aperto i pantaloni. “Il covid”, hanno detto in coro. Gesù, ho esclamato io, prendendo su di me il castigo divino. E, niente, erano giusto le 23. Che potevo fare, se non tornare a casa e farmi una birra. Ci voleva proprio.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha scritto per varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.
Che disavventura! Mi dispiace per quello che ti è accaduto e purtroppo credo che d’ora in poi sarà sempre più drammatico dover ricorrere alla sanità italiana.
Dobbiamo essere particolarmente prudenti adesso, evitare azzardi e pericoli inutili, cerchiamo di non finire nelle grinfie dei medici e degli infermieri senz’anima che credono alla farsa pandemico-vaccinale, ora sono legittimati a fare del male più che mai.