COMUNITÀ, SOCIETÀ GLOBALE, RELATIVISMO E NICHILISMO (di Matteo Fais)
C’è un dato con cui i presunti antirazzisti non vogliono fare i conti: la comunità. Ovunque si nasca, noi tendiamo a formarne una o più. Questa, immancabilmente, si costituisce intorno a una comunanza di valori e sull’implicita esclusione di chiunque non li condivida.
Faccio un esempio molto semplice. In un club di appassionati di letteratura, chiunque dovesse presentarsi dicendo che la lettura è attività da perdigiorno verrebbe gentilmente accompagnato alla porta. Il principio, nella sua crudezza, è molto chiaro: tu non condividi la nostra visione del mondo, dunque sei fuori. Non si vorrebbe con ciò dire che lui non abbia diritto di avere la sua idea e propagandarla ma, in seno a una tale comunità, un simile molestatore non ci farebbe niente. Il comune interesse unisce tra consimili, tanto quanto induce a respingere “il diverso”.
Similmente, sarebbe folle chi volesse andare in un locale per scambisti a perorare la causa della monogamia e della fedeltà coniugale. Ma, ripeto, capiterebbe così ovunque. Io non mi recherei mai in uno di quei bar dove si seguono le partite di calcio tra tifosi, perché di questo sport non mi importa niente. Non mi sentirei parte della serata, anzi mi indisporrebbe l’entusiasmo e le urla in occasione di ogni goal. Sono altresì certo che loro mi guarderebbero infastiditi perché, col mio silenzio e il mio stare in disparte, rovinerei un’atmosfera diffusa e da loro deliberatamente creata.
Le situazioni appena descritte sono esempi in scala ridotta di come funziona una comunità coesa. Senza volersi arrischiare a dire chi ha ragione e chi torto, da relativisti, si può tranquillamente sostenere che certi universi di valori, scelte esistenziali, e modi di essere sono inconciliabili tra loro – giustamente inconciliabili.
Da etero sessuale, per esempio, è ben più che naturale per me considerare positivamente la visione di un uomo con una donna e storcere il naso di fronte a due uomini tenuti per mano. Il simile rassicura e non c’è niente di male in ciò. Posso anche parlare con un omosessuale ma, non c’è niente da fare, non riesco ad affrontare con lui la questione erotica senza che lo stomaco mi si rivolti. Non è omofobia, ma senso di appartenenza. Posso discuterci di letteratura e musica, ma non sono interessato a sapere – e meno che mai a immaginarlo – tra le braccia del suo compagno. Francamente, la cosa mi ripugna, come vedere i veneti che mangiano avidamente la polenta che io detesto.
Se volessi fare il politicamente corretto, direi semplicemente che sono etero e per me va bene tutto. Ma quello non sarebbe relativismo, bensì nichilismo – il tutto indistinto e il niente coincidono. Non mi interessa stabilire cosa sia più consono in ambito sessuale, ma mi piace di vivere entro una dimensione rigorosamente eterosessuale.
Per tutta questa serie di motivi, ritengo assurda qualunque idea di società globale. Perché non c’è, perché per forza di cose si dovrebbe risolvere in appiattimento e nichilismo. Gli americani mangiano la bistecca accompagnandola con il whisky o il thè. Io, se vedo qualcuno accostare simili bevande alla carne, vomito. Non me ne frega un cazzo, neppure di trincare sakè, francamente. Perciò, credo nei confini e nelle comunità ridotte – e, in forma ancora più limitata, in quelle ideali –, perché il mondo è troppo vario per non avere tanti nomi, antropologie, suoni e sapori. Perché escludere è sotteso all’includere.
Si può discutere, si può convivere a debita distanza, ma l’uomo ha sempre cercato e sempre cercherà la comunità e l’appartenenza. In un quartiere di Shanghai, ogni italiano, anche mai visto, è mio fratello. Il simile cerca il simile, c’è poco da fare. Chi contesta questa idea, chi auspica che ovunque mi senta a casa, pretende l’impossibile, è folle. Folle proprio come chi ritiene che certe diversità non dovrebbero suscitare ribrezzo in chi le nota. Possiamo stabilire che non si debbano avere reazioni violente al loro cospetto, ma che le si debba vivere come normali, come la propria normalità, non sta né in cielo né in terra.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha scritto per varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.