L’EDITORIALE – LA TRISTISSIMA IDEA DI ROCK E LETTERATURA DEI PROGRESSISTI (di Matteo Fais)
Mi pare sia stato Eric Clapton – lui o un altro, comunque, non importa – a dire che una delle cose più belle del suonare in un gruppo rock famoso è farsi un mucchio di ragazze. Ovviamente, non è solo una questione di erotomania, ma di vita sopra le righe – un tempo avremmo detto spericolata, se non fosse che Vasco Rossi adesso è un ridicolo salutista.
Il rock, come insegnava il personaggio di Joe Black ai suoi giovani studenti, nel simpaticissimo film School of Rock, riguarda il rompere con qualsiasi regola. Per questo quando vedo i Måneskin, la band italiana che ha da poco trionfato a San Remo e a non so che festival europeo, mettere le mani avanti e precisare di non fare uso di droga, provo pietà per loro come al cospetto di un branco di sfigati da oratorio. Purtroppo, in un mondo in cui non c’è più niente da trasgredire e i progressisti sono diventati i nuovi inquisitori, non mi stupisce che le rockstar vivano peggio che ai tempi della Democrazia Cristiana.
Il rock come la letteratura, oramai, sono mezzi pedagogici per l’educazione ai buoni sentimenti, all’amore per il migrante e per le povere femmine oppresse . Infatti, voi ce lo vedete quello lì – come cazzo si chiama, quello dei Måneskin, Damiano? – che si porta una serie di ragazzine in camerino e le chiava una dietro l’altra? Non mi pare proprio possibile a giudicare dal trucco. Per carità, anche Axl Rose, nel periodo più glam, usava la matita, ma aveva decisamente una spinta molto più maschia e immagino che il suo camerino fosse un lunapark di groupie e zoccole varie. Ma, del resto, oggi come oggi, cioè in tempi di cancel culture, la maggior parte dei suoi testi lo porterebbero dritto dritto in galera, tra misoginia (I’m a cold heartbreaker/ Fit ta burn and I’ll rip your heart in two/ And I’ll leave you lyin’ on the bed […]With your bitch slap rappin’/ And your cocaine tongue/ You get nuthin’ done), allusioni alla violenza femminicida (I used to love her, ooh yeah but I had to kill her/ She bitched so much, she drove me nuts/ And now I’m happier this way), per non parlare dell’omofobia e del razzismo (Immigrants and faggots/ They make no sense to me/ They come to our country/ And think they’ll do as they please).
Il suo era rock, per quanto inserito abbastanza presto nei meandri dello show business. Almeno lui è stato vero e ha attinto alla cruda violenza della Los Angeles notturna per comporre quelle che sono le sue migliori canzoni. Se qualcuno gli avesse chiesto un test antidroga, poco ma sicuro, avrebbe reagito menando le mani, come ha sempre fatto e come era nel suo dna di ragazzo di strada.
Questo rock senza alcol, cocaina e donne, è roba da festa di paese – potrebbero suonarlo anche i preti, spesso meno santi di noi. Non sto dicendo che un creativo debba per forza drogarsi per scrivere, ma se ne ha bisogno non deve giustificarsi con nessuno. Non si sale su un palco per fornire un esempio di inscalfibile moralità.
Il problema, certo, è che i nuovi progressisti, invece, vogliono proprio quello, in ogni ambito: degli ecclesiasti laici. E lo auspicano anche a livello letterario. Come ho detto più volte, è solo perché la loro ignoranza è più profonda dell’intestino di una pornostar dopo una gangbang se non hanno ancora dichiarato guerra a tutta la letteratura occidentale. L’individualismo anarchico e antisociale di un Bukowski, le sue passioni sessuali moleste, certe dichiarazioni dette senza pensarci due volte, lo porteranno presto alla condanna postuma, appena qualcuno di questi disagiati lo scoprirà. Non parliamo dei sordidi personaggi houellebecquiani, tra turismo sessuale, alcol a fiumi, e un costante attacco a tutta la retorica femminista imperante.
Secondo loro, i romanzi dovrebbero essere libretti di catechismo progressista fatti di maschietti cucki che soccorrono donne vittime del patriarcato, o ecologisti che si dannano l’anima perché una loro scorreggia ha fatto vacillare la soglia d’inquinamento globale. Costoro non impareranno mai che la letteratura non forma, ma penetra il deforme, mostra l’oltraggio della vita con meno censure di un film horror. Così come non capiranno mai che la scrittura non è se non rarissimamente appannaggio delle anime pie, ma acido nella penna del torturatore, arringa spudorata vomitata da colui che difende l’indifendibile. La letteratura non è una fiction su Rai1, facilmente digeribile dai buoni con i suoi ingredienti soliti di famiglie arcobaleno o allargate, migranti incompresi, e mogli salvate dal marito violento. Il romanzo non rassicura, scandalizza e disgusta, mette al cospetto di prospettive non rassicuranti, rende attraente l’immondo.
In due parole, non si può fare musica o letteratura entro l’angusto recinto di libertà concesso dai fanatici della cancel culture.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha scritto per varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. È in libreria il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.
È esattamente quello che vogliono i progressisti, un livellamento generale in nome del politicamento corretto. Insomma auspicano un mondo noiosissimo, stile ex unione sovietica. Il tutto con la parvenza di un anticonformismo che in realtà è l’iperbole del conformismo.
Con l’ulteriore, inquietante somiglianza espressa dal fatto che chi davvero creava cultura in una temperie effervescente e vitale erano dei dissidenti perseguitati e accusati di essere dei malati mentali, ridotti a muoversi ai margini della società ufficiale per evitare rappresaglie odiose quanto pesanti.