L’EDITORIALE – SE CHIUDONO UN GIORNALE: CHE FARE? (di Matteo Fais)
Si fa presto a gridare “basta”. Agire, poi, portando alle estreme conseguenze le proprie convinzioni, richiede dedizione e consapevolezza dei rischi. Bisogna prendere coraggio e mettere da parte il timore.
Quasi nessuno riesce nell’intento. Il quieto vivere prevale come tendenza di massima. Ci si lamenta, insomma, ma di solito si finisce per subire. L’imperturbabile e placida tranquillità borghese la vince quasi sempre sull’incertezza del futuro, persino tra i rivoluzionari. Così, si rimanda la resa dei conti. Solo con le spalle al muro, l’uomo capisce che gli restano unicamente due opzioni: sparare o prendersi le pallottole del nemico.
Il punto è proprio questo: noi siamo con le spalle al muro, braccati, ridotti all’angolo da un attacco che si fa di giorno in giorno più virulento e subdolo. Se non rispondiamo con un cazzoto in bocca, saranno le nostre labbra a essere serrate per l’eternità. Davvero, non abbiamo più alternative.
Come saprete, ieri, l’ennesimo giornale – o meglio la sua pagina Facebook –, su base del tutto arbitraria e in spregio della libertà d’espressione, è stato chiuso. Parlo di “Il Primato Nazionale”. Inutile, adesso, stare qui a meditare sulla giustezza o meno delle sue posizioni. Ciò sarebbe ozioso, come discutere il gusto estetico degli abiti indossati dal condannato a morte, mentre è condotto verso il patibolo.
C’è un solo dato che conta, la censura. La piattaforma privata, così privata da coinvolgere mezzo mondo, ha fatto come ha voluto e, con un colpo di spugna, ha rimosso anni di lavoro e parole – una quantità infinita e apparente insormontabile di lettere e pensieri. Nessuno nella storia ha mai avuto un potere simile. Un libro o un giornale poteva essere proibito in un determinato paese, ma di solito questo trovava modo di essere fatto espatriare per salvarlo dal rogo e dall’oblio. In un altro mondo, era leggibile. Oggi esiste un unico universo, il social, e in esso un privato ha un potere che neppure Stalin si sognava in illo tempore. Le visioni orwelliane di 1984 erano tutto sommato ingenue e, forse, nella loro sicuramente acutissima analisi sociale, non potevano valere oltre la data indicata nello stesso titolo. Adesso, il mondo è diverso, la dittatura è più ambigua, meno manifesta. Non indossa divise, ma tutti gli accorgimenti del caso per risultare mimeticamente indistinguibile dalla democrazia.
Ma la colpa è nostra, noi l’abbiamo permesso. Tollerare è giusto, subire l’intolleranza è imperdonabile. Tutta la storia è storia di uomini che hanno portato un giogo finché non decisero di ribellarsi. La risposta alla domanda implicita – che fare? – , dunque, è presto detta. Se ci fanno paura, noi dobbiamo terrorizzarli.
Attenzione, non sarà facile e indolore. Quando si lotta per la libertà, bisogna comprendere che sarà possibile non vederla mai con i propri occhi. Chi cade in battaglia, affida allo sguardo del commilitone la speranza della luce, mentre sul suo cala la tenebra.
Noi dobbiamo lottare, dobbiamo farlo costi quel che costi. Dobbiamo anche sapere, però, che da questo momento la nostra vita vale niente. Un principio ci sopravanza e ci guida. Potremmo essere immolati sul suo altare. Non dobbiamo avere remore e nessuna pietà verso il nemico – questo nemico non la merita. Dobbiamo anche capire che non serve lamentarsi. La sua pietà non ci interessa e, del resto, è palese che non ha orecchio per le suppliche altrui. Forse, non dovremmo neppure scriverne, ma solo passare all’azione. La parola è necessaria ma, oltre un certo limite, diviene colpevolmente insufficiente da parte chi ne fa uso – ciò sapeva bene Ulrike Meinhof. Come in quella bella canzone, Ballata autocritica, di un comunista solo apparentemente ironico, Fausto Amodei: “Forse occorre che/ questa chitarra a ciondoloni/ si trasformi in mitra/ e possa emettere altri suoni;/ e che le sei corde/ per produrre altri rumori/ si trasformino di colpo/ in sei caricatori;/ e che queste dita/ per produrre qualche effetto/ anziché grattare arpeggi/ premano un grilletto”.
In ultimo, io temo, al netto del torto subito da “Il Primato”, la questione è infinitamente più radicale e coinvolge troppa gente in Italia e nel mondo. Si dovrà risolvere in modo netto, come ogni dicotomia amico-nemico. Ma, per prima cosa, dobbiamo fa capire loro con chi hanno a che fare. Gli deve proprio giungere la notizia che noi siamo “come una locomotiva […] lanciata a bomba contro l’ingiustizia”. Uomo avvisato…
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha scritto per varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Da ottobre, è nelle librerie il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.
Sono uscito da quella fogna liberal-liberista di FB da mesi. Mi sarebbe piaciuto vedere un esodo di massa dopo l’indegna censura a Trump, ma non credo sia avvenuta. Come colpirli in modo che accusino il colpo, allora?
Non conosco i motivi per cui il Primato Nazionale è stato chiuso, non condivido l’ideologia della parte politica di cui quella testata è espressione, ma la censura non può fare parte del vocabolario di chi si ritiene persona democraticamente libera.