L’EDITORIALE – SCUSATE, MA L’ITALIA DOV’È? (di Sergio Flore)
Dopo 160 anni ha vinto lui, il personaggio più improbabile, l’intellettualoide mezzo svitato. Non il pragmatico sabaudo, modernizzatore infaticabile, né il ladrone dei due mondi, tagliagole e mercenario. Dilettanti. In realtà ha vinto il massone, l’idealista, l’ideologo degli Stati Uniti d’Europa. Lui ci aveva visto lungo.
Facile ricordare il Mazzini liberatore della patria, l’arcinemico dei reazionari austriaci. Ma l’unità nazionale era solo il primo passo, di certo non la conclusione del piano. I germi dell’internazionalismo, dell’universalismo utopistico tanto caro ai progressisti si trovano già lì, nella costituzione della Giovine Europa: era quella la meta finale, oggi sostanzialmente realizzata. A sinistra non si stupiscono – l’hanno intuito da un pezzo. La parte difficile è farlo comprendere alla destra patriottarda. Perché, se da una parte c’è chi odia il concetto stesso di Nazione, dall’altra c’è chi, in buona fede, continua a farsi il bagno e sguazzare nella ridicola retorica risorgimentale, non comprendendone i limiti.
“Fatta l’Italia, ora bisogna fare gli italiani”. Non ci si sofferma mai abbastanza sulla frase attribuita a Massimo D’Azeglio e usata a mo’ di slogan da pigri professori per riassumere il clima del tempo, lo sforzo per costruire ex nihlo uno Stato Nazionale. In realtà, la frase presuppone ben altro. Presuppone che gli italiani, fino al 1861, non esistessero. Presuppone altresì che esploratori, condottieri, cardinali, principi, contadini, viaggiatori e scopritori di continenti, fieri della loro città e del loro incomprensibile dialetto, non fossero italiani. O, forse, che non fossero gli italiani giusti per il progetto risorgimentale. Presuppone la necessità di una rivoluzione antropologica che – dopo 160 anni lo si può dire – ha sì distrutto mille vecchie piccole patrie, ma non è riuscita a costruirne nessuna nuova da sostituirvi.
Il filo conduttore di questo secolare e fallimentare esperimento di Nation Building è l’odio, declinato in due forme. Il primo è quello verso le diversità, tutte. Le specificità che rendono la Penisola l’angolo di mondo più bello, vario, interessante, visitato e invidiato, non vanno bene. Bisogna livellare, bisogna appiattire. Bisogna “modernizzare”, “standardizzare” per “razionalizzare” – parole magiche, fateci caso, di cui la sinistra va pazza. Si decide quindi di importare nel Paese delle repubbliche, dei comuni e dei giudicati l’assetto politico meno adatto in assoluto: quello francese, centralista, giacobino, figlio dello Stato Nazione più antico d’Europa. Significa vestire un neonato con un’armatura da cavaliere sperando che, crescendo, il lattante si adatti al guscio metallico. Ovviamente non funziona: il bimbo muore soffocato tra le piastre di latta. Passeranno i governi, le dinastie, le ideologie, ma questa resterà la gabbia fondamentale del Paese.
Sì, il federalismo avrebbe potuto salvare il salvabile. Ma oggi, come un secolo fa, è vuota retorica, discorso puramente intellettuale, al massimo elettorale. E forse è meglio così, vista la levatura culturale dei suoi sedicenti sostenitori: Zaia che parla del centralismo come di un’idea “medievale” ci fa rimpiangere Napoleone Bonaparte e il suo codice civile. Certe affermazioni dovrebbero costare la revoca della licenza media.
Il secondo odio è quello verso la tradizione religiosa del Paese. La cassetta degli attrezzi è nota: l’inquisizione, le crociate, l’abuso di potere dei papi, la donazione di Costantino, le persecuzioni contro gli ebrei… Roba da morire di sbadigli. Ci hanno messo mano tutti, da Montanelli a Mussolini, da Garibaldi a Gramsci. Eppure le tradizioni più sentite, le usanze che uniscono davvero l’Italia da Trento a Palermo, sono cattoliche. Si è voluto creare un paese omogeneo eliminando allo stesso tempo un potente e collaudato strumento di uniformità. E, se si toglie il cattolicesimo, che altro collante culturale resta? La lingua? L’italiano è un galateo verbale, una cortesia di facciata: tutti fingono di amarne le regole, ma lontani dalle telecamere, fuori dalle redazioni, si torna sempre lì, alla calda e confortevole maleducazione di un dialetto sempre più imbastardito.
Resta la grande eredità del mondo classico e dell’Impero Romano? No, siamo fuori tempo massimo. Non passa giorno senza che qualche accademico ci spieghi come lo studio del latino “tolga” ore utili all’informatica, all’inglese. E poi vai a spiegare a generazioni cresciute a pane e pacifismo che l’unica misura del valore, per i romani, era quella della forza e della gloria militare. No, oggi non resta nulla.
A 160 anni dalla sua unificazione, l’Italia è più divisa che mai. I confini non sono tra regni e repubbliche, ma tra gli italiani stessi, attaccati a un’unica, piccolissima patria: il loro divano. La competizione non è tra signorie ma tra scemi, in lotta per la sopravvivenza, alla spasmodica ricerca di un posto fisso inesistente o del miraggio di ricchezza e tranquillità borghese. Non ci sarà più il moralismo clericale, ma quel che è lecito scrivere e pensare lo decide un cartello di multinazionali californiane.
Sopita dall’europeismo di facciata, l’Italia non è mai stata tanto schiava dello straniero, gli italiani mai tanto proni ai capricci e alle folli leggi del governante di turno. Nel 2021, loro non festeggiano più nulla, perché non hanno alcuna tradizione. Non conoscono la loro lingua e stanno lentamente perdendo il patrimonio dei loro dialetti. Ha ragione la Meloni quando loda il pantheon e la marmaglia carbonara. Siamo i degni pronipoti del Risorgimento, finalmente pronti a esser fusi nella “giovine Europa” di Mazzini. Dopo 160 anni ha vinto lui. Dopo 160 anni ci sono riusciti: hanno fatto gli italiani, quelli nuovi. E siate sinceri, dite la verità: non vi fanno impazzire?
Sergio Flore
Il collante era la scuola, col programma unico ministeriale identico da Bolzano a Lampedusa.
Difatti lo smantellamento sociale è cominciato da lì (governo Berlusconi I) per poi passare all’università (governo Prodi, mai dimenticare – colpevole anche dell’istituzionalizzazione del precariato lavorativo) e solo in seguito con l’autonomia regionale che tanto bene ha dimostrato di fare in questi anni di CovidEconomics.
Competizione tra scemi: mi inchino di fronte a questa espressione che dovrebbe essere l’epitome (o forse meglio l’epitaffio) di un’epoca squallida.