L’EDITORIALE – UOMINI CHE ODIANO SÉ STESSI – RISPOSTA A FRANCESCO PICCOLO (di Matteo Fais)
La supercazzola, oggi come oggi, è ancora prematurata, ma rigorosamente con scappellamento a Sinistra. Il fronte progressista, almeno quello maschile, è tafazziano, auto flagellante, mentalmente frastornato da una vocazione masochista.
Per capire con chi si ha a che fare, basterebbe leggere Date ai maschi il giusto processo, un articolo comparso il 26 marzo su “La Repubblica” – e dove, altrimenti! – a firma dello scrittore Francesco Piccolo (https://rep.repubblica.it/pwa/robinson/2021/03/25/news/francesco_piccolo_processo_al_maschio-293806082/). Sì, parliamo dello stesso autore di L’animale che mi porto dentro, vincitore dello Strega nel 2014.
In effetti, Piccolo non è nuovo a questo odio di sé, o meglio di una parte del proprio sé, quella più animale. La cosa è ovviamente gravissima, quando si parla di uno scrittore. L’ambiguità è l’essenza dell’essere umano, la commistione spaventosa che induce all’incanto. Razionale e animale, un conflitto insanabilmente grandioso che induce quasi a credere vi sia stato un dio beffardo a pensarlo. Sublime guerra quella tra una razionalità che può piegarsi alla pulsionalità e una pulsionalità che è motore della razionalità. La costante tensione che ci attraversa come un veleno potentissimo di sensualità conturbante è la stessa forza che incanalata e sublimata produce tutta la grande letteratura che affolla le biblioteche.
Per lui, tale cosmica conflagrazione si riduce, almeno stando al suo libro, a “Ma dentro di me, sempre, sia che io lo voglia sia che non lo voglia, sempre, lavora un pensiero che sta sotto tutti questi: me la scoperei, come sarà da nuda, però che culo, però che tette, sembra desiderosa, sembra rigida, chissà se le piaccio…”. E quindi?, verrebbe da chiedere. A parte che tale pensiero abita anche le cavità uterine e le circonvoluzioni mentali femminili. Non penserà mica il grande romanziere che una donna, giovane o vecchia non importa, al suo cospetto, come al mio o a quello di qualunque altro portatore sano di pene, non provi attrazione o repulsione, desiderio o apatia, dubbi sulla dimensione della minchia o fantastiche proiezioni della lingua che aggredisce il suo clitoride? Andasse a nascondersi in un salotto di amiche e le ascolti quando sono sole per sentire il frizzante dibattito su centimetraggio, mani più o meno sapienti, e quantità di sperma prodotto dai rispettivi partner. Se noi maschi abbiamo un animale che ci portiamo dentro, e se ciò spaventa il Dottor Piccolo, mi auguro per lui che non incontri mai il drago della furia femminile, la valchiria scatenata.
Ma, venendo nello specifico all’articolo, l’autore si concentra sulle nuove tendenze del fronte sinistro, dal metoo alla cancel culture, per dire che fondamentalmente hanno ragione, ma tendono a eccedere (“La convinzione di stare dalla parte della ragione, a volte di essere per davvero dalla parte della ragione, fa dimenticare la forma democratica dei processi, travolge tutto, coinvolge colpevoli e innocenti”). Insomma, ok fare pelo e contropelo a noi maschi, ma per favore non facciamoci prendere la mano. Certo, però, noi per primi dovremmo venire in soccorso di simili processi, evitando di distinguerci tra maschi alfa cattivi e maschi beta buoni, perché in fondo siamo tutti un poco birichini: “I maschi devono prendersi la responsabilità non soltanto individuale, ma collettiva, della cultura vigente che vuole essere cambiata”. Ciò deve riguardare ognuno di noi, nessuno escluso, perché “se questa enorme quantità di maschi democratici e civili non hanno cambiato le cose, allora non si devono – non ci dobbiamo – sottrarre alla responsabilità”.
Insomma, se un pazzo va in giro a uccidere o violentare, la colpa è un po’ anche mia. Se quel signore dall’altra parte della città picchia la moglie per puro sadismo, io mi dovrei cospargere il capo di cenere. Certo, contaci che lo faccio.
Premesso che nel gioco a chi ha la colpa, se la si pensa così, vale quanto dice Sartre, ovvero che ognuno porta su di sé la responsabilità del mondo intero. Se ho continuato a vivere e ieri sera mi sono mangiato una pizza in barba al mondo, mentre anche un solo essere umano è morto di inedia, non capisco perché non dovrei torturarmi anche per questo. La verità è che esiste un sistema di colpe che non è un’astrazione metafisica, ma un concezione netta fatta di responsabilità dirette. Se uno ha una visione malata del rapporto con le donne, io non ne sono responsabile, persino se una volta abbiamo sorriso insieme vedendo una con un bel culo. Dal guardarla al metterle dentro il cazzo contro la sua volontà corre un abisso – e, soprattutto, se è ben possibile che ogni violentatore guadi desideroso le donne, non ogni persona che le guarda con desiderio è un violentatore. Io agisco a mio nome e il genere maschile è formato da tanti singoli esseri umani, ognuno dotato, salvo in casi di malattie mentali o affini, di una sua specifica volontà e responsabilità individuale.
A ogni buon conto, per concludere, a Piccolo, come a tutto il femminismo, sfugge l’inanità della propria attività di sensibilizzazione. Un uomo che sia ancora nell’alveo della normalità non diventa Ted Bundy, anche senza il catechismo di uno scrittore famoso, ma Ted Bundy se ne fotte ampiamente di tutte le manifestazioni contro i femminicidi e nessun articolo di “La Repubblica” gli farà cambiare idea. Spiace dirlo, ma è così. Prima lo capiranno Piccolo & company, prima la smetteranno di frantumarci i coglioni.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha scritto per varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Da ottobre, è nelle librerie il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.
Eheheh.
Non la smetteranno mai perché verrebbe meno il senso del loro operato (la predica).
Tra l’altro Repubblica riempie pagine di tali scritti solo perché non riesce a recuperare inserzionisti pubblicitari a sufficienza.
Una chiusa da applausi a scena aperta. Ormai è chiaro anche ai più distratti che la modernità è una malattia mentale, e quelli che scrivono su “Repubblica” ne sono affetti in fase terminale. Per fortuna sono anche quelli favorevoli all’eutanasia.