Il Detonatore

Facciamo esplodere la banalità

IL RACCONTO INEDITO – “BACICO SESTINA” (di Salvatore Niffoi)

Io sono Bacico Sestina, nato a Lusantu un pomeriggio d’ottobre del 1950 che il vento di maestrale soffiava per le strade del paese come l’alito di un cane rabbioso. Il cielo era striato di un rosso amarantino che illuminava i tetti delle case e faceva brillare le chiome degli alberi simili a candelabri di corallo.

In effetti non sono mai stato sicuro di essere nato veramente, credo di essere figlio di un sogno, un sogno mai realizzato. Mia madre forse era convinta di avere dentro la pancia un bambino, ma quello di sicuro non ero io. Lei non si era mai accorta che aveva concepito semplicemente una bolla di sapone che quel vento maligno si era portato via.

L’ultimo romanzo di Salvatore Niffoi, Il sogno dello scorpione, Il Maestrale.

Il primo sogno io l’ho fatto dentro una piccola culla che somigliava a una bara per neonati. Era scolpita nel perastro mandorlino. Nelle fiancate qualcuno aveva dipinto sopra una nuvola turchese due angeli che giocavano con un falco e una biscia.

Disteso in quella culla ho sognato lucertole e uova di merlo deposte dentro il nido tra i filari di una vigna. Ho sognato lepri scuoiate e cinghiali con le zanne lunghe come forconi che inseguivano cacciatori scalzi con i piedi insanguinati.

Quando ho iniziato a camminare, lo avrete già capito, io ero già stanco di sognare. I primi passi li ho messi dentro una nuvola di lana burda graminata da una vecchia che aveva un pesce in bocca e due grappoli di ciliegie come orecchini. Portava, su una crocchia di capelli bianchi, un pettine d’oro e una biglia smeraladina che somigliava all’occhio rubato a un cieco. Lei ogni tanto soffiava su quella nuvola per farmi dondolare mentre mi cantava una ninna nanna. “Dormi dormi Bacicorino, che tanto la vita inizia veramente soltanto dopo la morte, dormi e sogna il paradiso se vuoi tenere lontana la malasorte”. Quel sogno con la vecchia, che al posto degli occhi aveva due pozze scure riempite di pece fusa, è stato quello dell’inizio, quello della fine non so proprio come sarà, di sicuro so soltanto che sarà l’ultimo che farò.

La seconda volta che ho sognato avevo appena compiuto un anno. Mi è venuta la febbre alta e la testa mi è diventata calda come una brace nascosta sotto la cenere. Allora abitavamo in una specie di tomba all’interno di una boccia di arenaria, un angolo cieco di Via Perda Longa. Tre metri per due scavati con il piccone da mio padre, dopo che tornava dalla cava di trachite dove faceva il tagliapietre. Solo un buco grande, per far entrare i cristiani con la schiena piegata, e uno piccolo per far uscire gli avanzi di due vite che masticavano pane secco, croste di formaggio, finocchietti selvatici e lardo rancido. In quella tana di ragni a due zampe, tra brividi e sudore, una parete di pietre rosse grosse come zecche esplodevano in aria e mi cadevano addosso. Ancora oggi ricordo bene quella pioggia oleosa che portava via lontano la mia culla, tra fiumi che si infilavano in caverne sotterranee senza mai arrivare al mare.

Mia madre mi passava panni bagnati nell’aceto sulla fronte e pregava la Madonna di Gonare di lasciarmi ancora un poco accanto a lei. Pregava e piangeva inghiottendo bocconi di paura. “Bacicu, Bacicheddumeu, non chergiat Deus chi tue mi lasses sola in custu mundu!”.

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Mio padre se ne stava di fronte al camino acceso, in una mano il bicchiere vuoto sporco della sua saliva e delle sue dita, nell’altra la cicca spenta che succhiava avidamente in cerca di un po’ di piacere amaro. Ciondolava la testa come una melagranata appesa al ramo e ogni tanto si agitava scosso dal torpore sbarrando gli occhi all’improvviso. Tra le fiamme e le scintille dei rami del corbezzolo secco sembrava un morto resuscitato.

Mia madre accanto a mio padre si sentiva sola, perché lui era sempre assente anche quando c’era. Metteva piede dentro casa e subito si nascondeva come una lucertola nella tana della sua bottiglia. Era più il tempo che dedicava alla cava di pietra e alle bettole che quello che passava con noi. Usciva la mattina presto al buio e tornava la sera quando il sole era ormai esploso oltre la collina di Janna Lanosa.

In quel sogno invernale mio padre era un mulo a due zampe che allontanava scalciando una culla per salire sopra mia madre. Lei piangeva e implorava domandandosi nel buio del silenzio se quello fosse veramente l’amore.

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Io sono Bacico Sestina, nato a Lusantu un pomeriggio d’ottobre del 1950 che il vento di maestrale soffiava per le strade del paese come l’alito di un cane rabbioso. Prima di iniziare a camminare io ho iniziato a sognare. Poi i sogni sono diventati incubi e sono invecchiato in fretta. A dieci anni ne mostravo trenta e a quaranta sembravo un centenario dell’ospizio.

Le ultime cose che ho sognato sono uno scorpione che mi danzava dietro la schiena e una fune sospesa al ramo di un fico selvatico. In quel momento ho capito che lasciare questo mondo prima del tempo non è un peccato, è molto peggio continuare a vivere senza averne voglia. Basta ricordarsi che tutto è solamente un sogno, un fottutissimo sogno.

Salvatore Niffoi

L’AUTORE

Lo scrittore Salvatore Niffoi è nato a Orani, in Sardegna, il 19 febbraio 1950. Si è laureato in Lettere, a Roma, sotto la guida di Carlo Salinari e Tullio de Mauro. Ha pubblicato con le maggiori case editrici nazionali (Il Maestrale, Adelphi, Feltrinelli, Giunti). Con il romanzo La vedova scalza ha vinto il Premio Campiello, nel 2006. Le sue opere sono tradotte nelle principali lingue mondiali.

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