L’EDITORIALE – QUANDO ORWELL CI SPIEGÒ PERCHÉ L’ESTREMISMO È MEGLIO DELL’EDONISMO (di Matteo Fais)
Guardatevi intorno. È tutto tranquillo, calmo, quasi placido. La vita di molti non è neppure cambiata, se non per l’introduzione di una piccola e – per alcuni – non invasiva fascetta da appendersi alle orecchie per coprire naso e bocca.
Tutto insiste a perpetrarsi nella sua inerziale forza ottusa. Si va al bar, al lavoro, ci si concede un aperitivo con gli amici tra battute e consueti risolini. Una nauseante leggerezza regna persino al cospetto della pandemia e alla possibilità della morte. Del resto, non ci sono aerei che sorvolino le città, almeno non aerei carichi di bombe, né uomini vestiti da soldati, con fucili e cannoni, assiepati nei cunicoli di qualche trincea. E, forse, il punto è proprio questo…
Calma, calma, troppa calma. Il sangue esplode nel cuore come la benzina nella camera di scoppio del motore, ma niente si muove. Una consapevolezza si fa largo in alcuni di noi: una vita simile è oscena, sa di terapia intensiva, igienizzante e vecchiaia. Dov’è il clangore e la detonazione? Dov’è la vittoria?, per dirla con il nostro inno. Manca decisamente qualcosa. Un’esistenza senza conoscenza di sé non è degna di essere vissuta, dice il saggio. Già, ma come si può conoscere sé stessi senza il contatto con la morte e l’orrore che noi abbiamo così abilmente rimosso? “Un’intera nottata/ buttato vicino/ a un compagno/ massacrato/ con la sua bocca/ digrignata/ volta al plenilunio/ con la congestione/ delle sue mani/ penetrata/ nel mio silenzio/ ho scritto/ lettere piene d’amore/ Non sono mai stato/ Tanto/ attaccato alla vita”, dice non a caso Ungaretti in Veglia.
La letteratura è da sempre – almeno da prima che iniziasse la nostra petalossissima epoca – una sguardo sulla mostruosità e l’inconfessabile di ognuno di noi. Ciò sapeva molto bene anche George Orwell, il noto autore di 1984, quando nel 1940 recensì, per il “New English Weekly”, la seconda ristampa inglese del testo maledetto del ’900, il Mein Kampf di Adolf Hitler.
Non ci interessa adesso discutere dell’occasione dietro questo lavoro, del suo giudizio sulla prosa, né delle considerazioni specifiche che lo scrittore espresse sul leader tedesco con la sua faccia un po’ da cane bastonato, dice lui, un po’ da Cristo martirizzato. Il nodo principale, la cuspide intellettuale di quella pagina sta nell’ultimo capoverso, dopo che nel precedente l’autore stesso sembra chiedersi cosa renda così attrattiva la personalità del dittatore e il suo progetto agli occhi della Germania.
La verità è tutta qui: egli ha colto “la falsità della visione edonistica della vita”. Mentre il pensiero occidentale nella interezza – “e certamente il ‘progressismo’” – ritiene tacitamente ed erroneamente che gli esseri umani non desiderino nient’altro che tranquillità, sicurezza e l’assenza del dolore, lui ha compreso l’essenza più autentica della creatura vivente. Non ci si appaga unicamente dei vari confort, della riduzione dell’orario di lavoro, di un miglioramento delle condizioni igieniche – la mascherina, la mascherina ! -, ecc. La massa vuole il sacrificio e la lotta, una dimensione più ampia di partecipazione a uno spirito condiviso. Hitler, secondo lui, trionfò proprio per questo, perché a coloro che proponevano, spesso mentendo, una vita migliore, lui contrapponeva il brivido del pericolo e della morte.
Ci voleva uno scrittore, morto la bellezza di settant’anni fa, per capire che, di questo schifo di esistenza passata nella paura di un microorganismo che potrebbe ucciderci da un momento all’altro, sarebbe meglio qualsiasi cosa. Che se ne fa uno di sopravvivere cent’anni per stare a sentire le puttanate di chi discute se chiamare un direttore d’orchestra donna “direttrice”? È davvero questa la società che auspicate, con oscene mascherate per rivendicare il diritto di prenderla in culo, senza famiglia ma circondati da femministe schiumanti al desiderio di evirarvi? Basta, verrebbe da gridare. Della felicità per il maggior numero di persone ce ne fottiamo e sputiamo per terra al loro passaggio. “Meglio finire nell’orrore che vivere in un orrore senza fine”, diceva invece Hitler nella sua mente “aliena a qualunque gioia”. Infatti, che venga piuttosto il terrore, il sangue, la battaglia e il disastro pandemico. Ma morire così, tra aperitivi e cibi in offerta speciale, in un triste monolocale per scapoli, o abbracciati a un cane che fa da succedaneo al figlio mancato, no, non se ne parla.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha scritto per varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Da ottobre, è nelle librerie il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.
La vita o è tragica o è insulsa.