PSICOLOGIA DEL COVID TRA FEDE E PAURA DELLA MORTE (di Maria Esposito)
Ormai è chiaro che dietro la pandemia di covid ed i continui, estenuanti lockdown e riaperture si nasconde ben altro che la tutela della salute. Resta però ancora un mistero come persone prima apparentemente ragionevoli si siano trasformate in larve pronte a rinunciare, ed a far rinunciare, a vivere pur di non morire di un virus che, dati ISS ufficiali alla mano, ha fatto, tra le persone sotto i 50, 941 vittime. In questo articolo è proprio questo mistero che cercherò di indagare, connettendolo alla generale perdita di fede e di identità dei popoli occidentali.
Partiamo da un principio base: la paura di morire, magari soffrendo, è forse la più antica ed è innata nell’essere umano, l’unico essere vivente che ha delle facoltà cognitive tali da avere piena consapevolezza della loro mortalità. Anche i miei gatti un giorno moriranno, ma loro non lo capiscono. La spiritualità e la religione hanno quindi, da sempre, avuto la funzione, se non di far superare, per lo meno di mitigare questa paura, di consentire all’uomo di convivere più o meno serenamente con l’idea di essere destinati a morire. A partire dall’illuminismo in poi, in un cupio dissolvi via via sempre più tragico ed evidente, le società europee hanno rinnegato la propria spiritualità giudaico-cristiana per abbracciare folli ideologie che, più che ideologie, erano religioni terrene e mondane, per cui tutto inizia e si esaurisce qui sulla terra. Ma se tutto inizia e finisce sulla terra, e quindi la morte è la fine di tutto, ecco che la paura di essa non è più gestibile, ecco che si diventa disposti a fare qualsiasi cosa, e sottolineo qualsiasi cosa, pur di evitarla, pur di sopravvivere qualche anno in più. Questa è la spiegazione del perché moltissime persone di una certa età, magari con pensione o stipendio fisso, sono disposte a sacrificare il futuro dei propri figli e nipoti sull’altare della psicopandemia: sono in preda ad una paura che, in mancanza di una fede, diventa ingestibile e scatena i peggiori istinti umani, tra cui l’egoismo. Un altro punto cruciale è quello della perdita del senso di comunità, e quindi d’identità, che la fede, il partecipare dell’intera comunità ai riti religiosi, garantiva. Pensiamo ai nostri bisnonni, abituati a partecipare tutti insieme, tutto il paese o il quartiere, alla messa domenicale: era qualcosa che dava loro il senso di appartenere allo stesso gruppo,di essere parte di un tessuto sociale con i diritti e doveri che esso comporta. A differenza della società liquida odierna, dove a prevalere è l’io, a prevalere era il noi, nella piena consapevolezza del fatto che l’essere umano trova uno scopo ed un’identità nel gruppo. Venuto a mancare il collante della fede, è venuto a mancare il senso di comunità, che è invece ancora presente in popoli che hanno mantenuto la loro spiritualità. Basti su tutti l’esempio di Fukushima, dove ingegneri in pensione si offrirono volontari per andare a spegnere i reattori nucleari: lo fecero perché, concependosi come parte di una società, ben capivano che per essa sarebbe stato peggio se, ad andare a prendersi un cancro, fosse stato un giovane. Provate anche solo ad immaginare uno dei nostri pensionati o statali sessantenni o settantenni fare la stessa cosa, ed avete pronta la risposta.
In conclusione, però, devo essere onesta e dire che non ce l’ho più di tanto con loro: sono anch’essi povere vittime di quell’associazione a delinquere chiamata comunismo che prima li ha privati della loro fede ed identità e adesso minaccia di farli morire soffocati.
Maria Esposito