COME RIFORMEREI LA SCUOLA (di Franco Marino)
Ho parlato ieri della scuola e non sono mancate repliche negative, sempre intese a ricordarmi l’importanza della laurea. Ciò dimostra non solo la difficoltà sempre crescente di capire il senso di un testo e anche i suoi sottotesti ma anche che molti si sono sentiti punti nel vivo. Mentre ci sono laureati che invece il mio articolo l’hanno apprezzato.
Tra queste repliche ce n’è una stimolante: come riorganizzeresti la scuola?
La domanda farebbe tremare le ginocchia a chiunque abbia un minimo di responsabilità e tuttavia poichè non sono ministro dell’istruzione e dunque non sono chiamato a rispondere di quanto scriverò, possiamo pure giocare.
La scuola è lo specchio della società. E la scuola italiana è dunque il riflesso di una società dominata dallo statalismo etico. Sul piano pratico, sfociando in un sistema sociale a “dimensione cretino”, lo stato cerca di proteggere il cittadino da ogni libera scelta, rendendo inutile l’illusione che privatizzando la scuola o statalizzandola ancora di più, essa cambi il corso delle cose. La scuola, difatti, attacca l’asino dove vuole il padrone alunno: dargli l’agognato diploma. Senza la riforma della dimensione statalistica della società, la riforma della scuola è perfettamente inutile. Lo statalismo parte dal presupposto che il cittadino sia un cretino e che quindi vada trattato come tale, proteggendolo dai suoi errori, col risultato di elaborare una burocrazia che tutela il nostro cretino da cose che, in un sistema liberale potrebbe benissimo fare da solo ma che se rifiutasse di fare, ne pagherebbe poi le conseguenze. E’ per questo che il cretino non cresce, non impara a prendersi cura di se stesso, a scegliere il professionista giusto e, quando cade nella rete di demagoghi e professionisti ricchi di fumosi titoli ma poveri di sostanza, non sa scorgerne la natura truffaldina.
Il liberalismo parte dal principio opposto: il cittadino non è un cretino e dunque deve badare da solo alla propria tutela, istruendosi non per un titolo ma per trovare le soluzioni migliori ai suoi problemi e tenendo ben presente che se non paga i contributi non avrà una pensione, che se non si fa un’assicurazione sulla salute dovrà pagare interamente le spese per le sventure che possono capitargli, che se non dedica parte del suo budget alla propria formazione, non potrà crescere professionalmente e via dicendo. Lascia cioè al cittadino il diritto di scegliere la propria sorte.
Il problema è che, a parole molti si dicono liberi, nei fatti molti cercano protezione sociale. E questa è la forza dello statalismo che però, come tutti i padri o mariti autoritari, a volte esonda e finisce per abusare del proprio potere, mentre ricambia assai poco i servizi in nome dei quali il cittadino decide di rinunziare alle proprie libertà. E dal momento che l’economia privata in Italia viene vessata da continui disincentivi, tutto finisce nelle mani dello stato, col risultato che l’accesso al lavoro viene garantito dalla conquista dei titoli di studio ritenuti garanzia di effettiva competenza. Lo studente dunque non studia nella consapevolezza che la sua formazione scolastica sarà fondamentale perchè trovi un lavoro ben remunerato. Studia per acquisire il titolo. Il risultato sarà quello di disinteressarsi di ciò che impara ma pensare unicamente a come fregare il professore per poi avere l’agognata promozione.
Naturalmente il fenomeno si accentua all’università. Migliaia di studenti studiano a memoria senza capire ciò che studiano perchè è importante ottenere la laurea e l’agognato titolo di dottore. Se è consentito un riferimento personale, quando io mi sono dato all’informatica, non mi sono iscritto ad ingegneria informatica: ho cercato di imparare quello che poteva servirmi per il mio lavoro, ho imparato a programmare in php, a fare app. Non ho badato ai titoli ma alle competenze che, studiando, facendo pratica, acquisivo. E quando i primi tempi non avevo un CV sviluppato e neanche un titolo di studio contestuale (essendo laureato in tutt’altra roba, cioè giurisprudenza) ho accettato di lavorare a basso costo per costruirmi un portfolio di realtà di un certo livello e poi alzare il costo del mio lavoro. E il risultato è che oggi lavoro per realtà aziendali che, in quanto private, non stanno a vedere se ho titoli o no ma se so fare le cose e gli risolvo problemi, dal momento che è dai loro guadagni che dipende la loro sopravvivenza.
Certo, si potrà dire che un conto è fare siti web e un conto è curare un paziente o difendere un imputato di omicidio. Ma il principio è il medesimo: chi e cosa ci garantisce che un medico che ha superato degli esami magari comprandoli e ricevendo, previo pagamento, una lista di domande ben fatte da un professore compiacente, ne capisca di più di uno che magari ha studiato da solo, privatamente? Se vi può sembrare una sciocchezza, sappiate che è il medesimo principio che ispira le lauree honoris causa – che hanno il medesimo valore di una laurea ottenuta mediante un corso di studi – attribuite a chi non ha affrontato un regolare percorso accademico. In quanto ha dimostrato competenze così elevate che superano quelle di un regolare studente.
E’ solo rendendola facoltativa per il futuro professionista che la scuola acquisisce un valore. Un cittadino non affiderebbe mai la propria salute ad un medico non laureato. E se poi lo fa, sarà a suo rischio e pericolo. E quel paziente non sarà meno sciocco di quelli che si rivolgono alla maga per guarire dal cancro.
Dunque il professionista che non trova lavoro sarà invogliato non da una legge ma dall’assenza di clienti a studiare in scuole costose, che gli diano le competenze. Se dipendesse da me, toglierei ogni valore legale ad un titolo di studio. Che i medici esercitino pure la professione senza aver frequentato l’università. Che gli avvocati difendano i clienti senza una laurea in giurisprudenza. Laurea che, non so se lo sapete, negli USA, dove ci si può anche difendere in un processo da soli, non esiste. Esistono invece costosissime scuole di legge, senza le quali si viene sic et simpliciter esclusi dalla possibilità di trovare clienti. Perchè chi mette la propria vita nelle mani di un avvocato o di un medico, naturalmente si sincererà che abbia svolto scuole adeguate, di prestigio. Ed è per questo che gli avvocati, negli USA, guadagnano il fottio di danaro che tutti conosciamo. Non perchè superino un ridicolo esame di abilitazione, non perchè fingano di fare pratica – non retribuita – presso qualche anziano avvocato. Ma perchè frequentano scuole dove pagano per avere competenze: un investimento che ritornerà in fama e prestigio.
Questo non implica affatto svalutare la scuola come principio. Al contrario, significa rimarcarne l’importanza, la necessità, cambiando radicalmente l’approccio dello studente che in un sistema liberale, dove l’obiettivo non è un posto fisso dalla culla alla tomba, ma un mercato dove lavora se è preparato, lo studente a scuola non ci andrà per essere promosso ma per imparare un mestiere. Confrontandosi con un mercato del lavoro spietato, non protetto da inutili ordini professionali, riuscirà a prendere il largo e dunque guadagnare solo se avrà conquistato un numero di feedback sufficienti a costruirgli una reputazione. E la sua laurea non sarà un titolo di studio funzionale all’accesso ad un posto fisso ma un riconoscimento che, per il suo semplice possesso, sarà una garanzia di qualità. Se, infatti, lo studente viene messo di fronte alle conseguenze della sua ignoranza, laureato o meno, capirà che a scuola ci si va per diventare più bravi. Che le conseguenze dell’impreparazione in un mercato che si basa sul privato e dove cioè chi decide di assumere qualcuno è costretto a valutare sul campo le sue competenze perchè altrimenti ne va del suo destino, sono quelle di farsi il vuoto attorno.
Invece in Italia, lo studio serve a conquistare una stiracchiata sufficienza, nella consapevolezza che basti essere promossi col minimo dei voti per entrare in una burocrazia che non lo caccerà mai.
Salvo che non commetta errori veniali come rubare o stuprare una collega o che commetta il peccato mortale di parlare bene di Trump.
FRANCO MARINO