L’EDITORIALE – NON FATEVI FREGARE DALLO SMART WORKING (di Andrea Sartori)
“Smart working” è una parola che già in sé contiene una fregatura. Innanzitutto bisognerebbe sempre diffidare della terminologia inglese, moderna versione del “latinorum” che don Abbondio usava per fregare il povero Renzo. Perché oramai sappiamo tutti che l’exotic fruit manager è la maniera del milanese imbruttito per dire che il suo lavoro è quello dell’omino der cocco bello. Ma che sarà mai sto “smart working”. L’anglicismo vorrebbe dire “lavoro intelligente”. Quanto intelligente?
A prima vista sembrerebbe così. Lavoro da casa, quando voglio, in mutande, non mi stacco dalla mia famiglia: posso sbrigare tutto anche al mare. La realtà è un po’ diversa.
Mia moglie, per esempio, ha accettato uno “smart working”: la traduzione di un videogioco, con protagonista Sherlock Holmes, prodotto in Russia. E quando ti arriva il videogioco da controllare? La vigilia di Natale. E va consegnato entro il 25. “In Russia non è un giorno festivo”, mi dice lei che si basa sul calendario ortodosso. In Russia no, ma in quasi tutto il resto del mondo sì.
Ancora una volta mi fanno notare che, però, anche in Italia, gli uffici sono aperti il 24. Appunto, gli uffici. Che, però, hanno un orario di chiusura. Lo smart working non chiude mai. E tu devi passarti la notte di Natale, distraendo tuo figlio coi cartoni sul cellulare, a controllare un videogioco in cui Sherlock Holmes interagisce con Aladino – e manco hai il tempo di chiederti che cazzo si siano fumati per concepire sta roba che ricorda Zorro contro Maciste).
I soldi? Arriveranno a gennaio. E manco saranno molti. Questo è il modello cinese: produttività 24 su 24, per pochi spiccioli, su lavori meccanici e ripetitivi. Fatelo presente agli antiamericani che, ancora oggi, si scagliano contro l’edonismo reaganiano e gli anni Ottanta.
Qualcuno in verità l’aveva preannunciato: lo smart working sarà dare lavoro per poche lire allo schiavetto asiatico sempre attaccato al computer. In realtà, siamo già allo step successivo: gli schiavetti siamo noi.
Per non parlare delle riunioni di lavoro. Strumenti come Skype o Zoom, utilissimi per riuscire a comunicare con persone lontane, ora diventeranno strumenti di reperibilità lavorativa sempre e comunque. Nel caso della didattica a distanza, sono già l’inizio dell’orrore supremo, ovvero lo Stato che viola le mura domestiche come ai tempi della DDR.
Anche a questo serve la distruzione pianificata della socialità, messa a punto con la farsa del Covid 19: ridurre l’essere umano, l’aristotelico zoon politikon, l’animale sociale, ad una monade che comunica unicamente con una macchina e dipende totalmente da essa. Siamo all’aggiornamento di quella schiavitù fordista da catena di montaggio che ben espresse Charlie Chaplin nel suo capolavoro Tempi moderni. Con la differenza che, quantomeno, Henry Ford pagava bene e gli operai, usciti dalla fabbrica, stavano con le proprie famiglie.
La tecnologia non va certo demonizzata, perché è come una pistola, dipende dall’uso che se ne fa. Essa ha portato immensi vantaggi ma, data la sua potenza, in mani sbagliate, può risultare assolutamente deleteria.
Lo smart working, insomma, vuole trasformare l’uomo in una bestia da lavoro, sull’esempio delle società dell’Estremo Oriente. Che però, proprio a causa di tempi lavorativi senza fine, stanno conoscendo una crisi demografica ancora più forte di quella occidentale. È il Giappone, dove gli impiegati dormono in azienda, il Paese più vecchio del mondo. E anche la Cina sta conoscendo un crollo demografico che non dipende più dalla famigerata legge del figlio unico, ma da un lavoro che ti occupa “h 24 e 7 su 7” per parafrasare il milanese imbruttito.
Non facciamoci fregare dal lavoro intelligente che intelligente non è.
Andrea Sartori