L’EDITORIALE – DISAVVENTURE OSPEDALIERE AL TEMPO DEL COVID (di Matteo Fais)
Cosa voglia dire stare male al tempo del covid-19 è faccenda che, purtroppo o per fortuna, molti ignorano. Perciò è necessario riportare esperienze dirette di parenti e famigliari stretti rendendole pubbliche e denunciando la gravità di una situazione che ha visto monopolizzare la scena dal famoso virus, come se le altre malattie nel mentre fossero improvvisamente scomparse.
Senza andare molto lontano, quindi, non mi resta che raccontarvi di mio fratello e di quanto gli è capitato proprio l’altro giorno. Dopo l’ennesima visita specialistica – a pagamento –, finalmente un medico si rende conto che la perdita d’udito – ridotto al venti percento – da cui è afflitto è dovuta a una formazione calcarea nell’orecchio. Fortunatamente, la situazione pare risolvibile con un’operazione, ma affinché questa possa essere eseguita, la diagnosi dello specialista deve essere confermata presso una struttura pubblica.
Armato di buona volontà e accompagnato dal padre, mio fratello si reca presso questo grande centro universitario-ospedaliero fuori dalla città di Cagliari. Alla reception, lo riceve una segretaria che lo invita ad accomodarsi, mentre lei, per una buona mezz’ora, cerca di mettersi in contatto telefonico con il reparto di otorinolaringoiatria.
Finalmente, qualcuno si degna di alzare il ricevitore. Prima di poter essere ricevuti e visitati, però, bisogna ottenere un ricovero. I fogli che servono per questo si possono ottenere solo al Pronto Soccorso che si trova lì a cento metri circa – bisogna quindi uscire all’aperto e sostare in un’altra sala d’attesa, dunque esponendosi ulteriormente al rischio del virus.
Una volta arrivati al Pronto Soccorso, previa misurazione della temperatura da parte di un addetto inguantato e mascherato, vengono richiesti tutta una serie di dati e, solo dopo il rilascio dei documenti necessari, si può tornare alla reception – meglio che il giorno non diluvi, con tutto questo avanti e indietro, ma fortunatamente non è stato il caso di mio fratello.
Riguadagnato il punto di partenza, la segretaria del ricevimento fornisce le indicazioni necessarie per raggiungere il reparto. Lì passa almeno un’ora prima che venga visitato. Durante il dialogo con il medico, mio fratello – probabilmente frastornato da tutti questi rimbalzi di porta in porta e dalla snervante attesa – compie incautamente l’errore di rivolgersi a una dottoressa chiamandola “Signora”. Manco le avesse dato della troia, scoppia un puttanaio in cui la giovane col camice bianco – che l’interessato mi dice essere piccoletta e “piuttosto bruttina” – si prende la sua rivincita di ultima ruota del carro e redarguisce brutalmente il malcapitato e sprovveduto paziente. Lo sappiamo tutti: purtroppo ogni medico, con la scusa di “LA SCCCIIIEENNZZA”, si crede sto cazzo e fa valere il suo ruolo manco fosse, a seconda del genere sessuale, l’unto del Signore o la destinataria dell’immacolata concezione.
A ogni buon conto, mio fratello viene licenziato e rispedito in reception. Siccome la visita ha richiesto un ricovero – mi domando seriamente perché –, a quel punto bisogna essere dimessi. Neanche a farlo apposta, per le dimissioni, si deve tornare al Pronto Soccorso e attendere. Il poveretto, visitato e umiliato, dopo per di più essersi visto fissare l’operazione di lì a due anni a causa del covid, viene tenuto altri buoni venti minuti in sala. È solo, se si eccettua la presenza di un uomo di colore, in palese stato di alterazione. Quest’ultimo si rivolge a mio fratello, lamentandosi di essere lì in attesa dalle cinque di mattina. Detto ciò, tira fuori un laccio emostatico – evidente prova che si trattava di un tossico – e si taglia le vene. Mio fratello, a quel punto, emotivamente scosso a sua volta, corre fuori a chiamare una guardia giurata. Il nero viene prelevato di peso e portato dentro.
Alla fine di questa triste e kafkiana storia, in cui la vera malattia del momento pare rivelarsi la mastodontica macchina burocratica che affligge le strutture pubbliche con i suoi percorsi interminabili e decisamente assurdi, mi domando se l’unico ad aver fatto la cosa giusta non sia stato lo straniero: forse, per non fare tutta la trafila e bypassare la cretinaggine diffusa dal virus, l’unico modo è usare la lametta contro sé stessi.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha scritto per varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. Da ottobre, è nelle librerie il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.
Analisi logica di una giornata comune documentata. Complimenti a Matteo Fais .