L’EDITORIALE – I THE DOORS SONO VIVI, VOI SIETE MORTI – PER IL CINQUANTENNALE DI “MORRISON HOTEL” (di Matteo Fais)
“Jim Morrison sta al limite tra canzone e poesia”
Michel Houellebecq
Non è nostalgia. È che quella voce è indimenticabile, quel sound oramai perduto per l’eternità e la gioia di quell’atmosfera – “e dicendo gioia non intendo leggerezza”, come cantavano i Bluvertigo – qualcosa di irrecuperabile nel tempo in cui ogni ingenuità è venuta meno. Il blues non è più una musica popolare, ma per intenditori. Le band di oggi se ne guardano bene dal veicolarlo, mescolandolo al rock, presso le masse. Oggi, tira la trap – una musica di merda, ma se lo fai presente ti danno del vecchio rincoglionito, quindi diciamo solo che fa schifo a qualunque persona dotata di un cervello.
Ma torniamo indietro, a cavallo tra i ’60 e i ’70, quando viene inciso Morrison Hotel, il penultimo album dei The Doors, il primo in cui emerge preponderante l’impronta blues dei quattro che raggiungerà, poi, il suo zenit nello strepitoso L.A. Woman. È appena uscita la versione Deluxe, in occasione del cinquantennale. Un LP, più due CD, uno con la versione rimasterizzata dell’originale e un secondo disco di outtakes, ovvero versioni scartate, non perfettamente riuscite, cover di altri bluesman (in particolare, Motown in Money (That’s What I Want) e B.B. King in Rock Me).
Inutile nascondercelo, questa è una mera operazione commerciale. Cionondimeno, ha una sua dignità e un valore affettivo inestimabile per noi fan sfegatati del gruppo di Los Angeles. Come già era successo con l’edizione per il quarantennale, ancora di più in questa, in particolare per canzoni come Queen of the Highway, Peace Frog e, ovviamente, la mitica Roadhouse Blues, sembra proprio di essere lì in sala di incisione con loro. Li sentiamo che provano e riprovano. Jim sghignazza quando lo richiamano all’ordine – è Paul Rothchild, il produttore, a farlo –, dicendogli che sono li per registrare e lui replica con qualcosa come “Signori, signori, per favore, cerchiamo di fare sul serio e non far consumare soldi inutilmente”.
Una cosa è certa, ascoltando quelle versioni in itinere: probabilmente i Doors, e soprattutto Morrison, avrebbero preferito un prodotto meno pattinato e più sporco. Sì, un vero e proprio album blues, come quelli suonati dai ne@ri, che il genere l’hanno inventato, e che certo non erano andati a scuola in un conservatorio, ma su strada, imparando in qualche bordello, o locale di periferia. Il blues non è roba per musicisti di studio, tecnici dello strumento assunti a tempo indeterminato nell’orchestra di qualche casa discografica. Morrison lo sa bene e tira fuori il meglio di sé in lunghe sedute in cui è, quantomeno, palesemente alticcio. Eppure, quelle outtake hanno un’anima, grondano sudore e passione, fanno venire voglia di ballare. E poi c’è, appunto, gioia. Morrison si diverte, se ne fotte di fare il professionista, e cerca la vita, lo spirito dionisiaco, in un blues tragicissimo (“Quando mi sono svegliato, stamane, mi sono fatto una birra. Il futuro è incerto e la fine è sempre vicina”).
Oggi che il rock è morto, come cantavano gli stessi in un’altra outtake contenuta adesso in The Soft Parade, fa un certo effetto sentire come si lavorava a quei tempi, senza computer e con una tecnologia preistorica. I Doors registravano, praticamente, tutto in presa diretta. Oggi, si incide la parte fondamentale della ritmica con la chitarra attaccata direttamente al cervello elettronico, per poi moltiplicarla per tutto il minutaggio della canzone e solo dopo si aggiunge il resto. Addirittura, spesso la batteria è computerizzata, sintetizzata, sfiorata virtualmente – si può persino impostare il ritmo. Jim & company, invece, sovente improvvisavano, lasciandosi trascinare l’uno dall’altro, dall’atmosfera che alleggiava in sala. Oggi, neppure i rapper e trapper lavorano più così.
E pensare che allora la critica considerò Morrison Hotel un album mal amalgamato, con tracce completamente slegate tra loro. La cosa non è del tutto falsa, se si prende in considerazione Waiting for the Sun, il pezzo che maggiormente fa sentire il precedente spirito psichedelico della band. Resta il fatto che, a paragone di ciò che viene prodotto di questi tempi, il penultimo disco dei Doors è fenomenale, spumeggiante, un rock blues senza paragoni. E questa edizione per il cinquantennale ha la peculiarità di portarci nei meandri di quel magico processo creativo. Memorabile il momento in cui Jim spiega a Ray Manzarek, Robby Krieger, John Densmore, il retroscena della canzone Roadhouse Blues, affinché possano trovare la migliore chiave interpretativa del pezzo: “Allora, il tema di questa canzone è qualcosa che tutti quanti avete vissuto una volta o l’altra. Immaginate una vecchia locanda di quelle che si trovano sull’autostrada e che accolgono prevalentemente camionisti e gente di passaggio. Ci troviamo a Sud, o nel Midwest, o magari a Bakersfield, mentre stiamo viaggiando su una vecchia Chevy del ’57 […]. È circa l’una e trenta e non stiamo andando troppo veloci, ma neppure propriamente lenti. Abbiamo una confezione da sei di birre e qualche spinello e stiamo ascoltando la radio, mentre attraversiamo la natura, verso la nostra destinazione. Ci siete?”.
Sinceramente, in questo momento storico così antivitale, tra zombi mascherati e perfettamente igienizzati, verrebbe voglia di salire sulla vecchia Chevrolet e farsi portare via verso una locanda per camionisti e ubriaconi, aprire una birra, farsi passare lo spinello, chiudere gli occhi un secondo, e dire a Jim: “Oh yeah, all night long, baby”.
Matteo Fais
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L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha scritto per varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. A ottobre, sarà nelle librerie il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi.