L’EDITORIALE – HO PARLATO DI DONNE CON UN MUSSULMANO E, FRANCAMENTE, NON AVEVA TUTTI I TORTI (di Matteo Fais)
“In tutti i riferimenti essenziali la maggior parte degli uomini di sinistra […] vuole rendere il nero conforme agli ideali bianchi della classe medio-alta. Vuole far sì che studi materie tecniche, che divenga un dirigente o uno scienziato, che spenda la sua vita salendo la scala della condizione sociale al fine di provare che la gente nera è valida quanto quella bianca”.
Theodore J. Kaczinsky, LA SOCIETÀ INDUSTRIALE E IL SUO FUTURO – Il Manifesto di Unabomber, Edizioni Stampa Alternativa
Quando ha aperto bocca per esprimere le sue convinzioni, tutti gli hanno dato addosso. Andava bene solo fintanto che raccontava la favoletta del povero immigrato che ha chiesto asilo politico in lungo e in largo in Europa e il cui viaggio è stato un’odissea. Come ho sempre saputo, lo straniero interessa agli umanitari ma solo se integrato, o meglio se diventa un occidentale a tutti gli effetti, con i nostri valori, idee, pensieri, vizi consumistici e se appoggia un progressismo spinto nel rapporto tra i generi.
A me l’hanno presentato dicendomi che la sua storia, il viaggio della speranza, era particolarmente interessante. Lo era. Ma, più di tutto, ciò che mi ha colpito è stato quando la conversazione si è sciolta e lui ha smesso di recitare la parte del “ero povero e affamato e voi mi avete accolto”, per discutere del più e del meno, come stavamo facendo con gli altri amici.
Ovviamente, tra maschi, abbiamo parlato di donne e, a quel punto, per poco non lo linciavano, soprattutto le ragazze. Lui, dal canto suo, manteneva un contegno oserei dire stoico, con la sicurezza delle sue convinzioni. Sul piano politico era palesemente un moderato, distante anni luce dalle idee dei terroristi. Cionondimeno, l’ho apprezzato tantissimo per il suo talebanesimo morale – non ha ceduto nemmeno su un punto, pur avendoli tutti contro.
Io, diversamente dagli altri, l’ho ascoltato con attenzione. Qualcuno gli ha chiesto se la moglie, al suo paese – dove, peraltro, è rimasta insieme ai quattro figli –, indossi il burqa. Lui ha risposto di sì. “Non obbligatorio, ma lei volere così, altrimenti vergogna”. I miei compagni di bevuta sono saltati in aria. “Come? Vergogna? Perché?”. L’uomo ha esplicato molto pacatamente che quella donna con cui si sposò, quando entrambi avevano diciassette anni, non si è mai mostrata a un uomo, se non al padre, ai fratelli, a lui e alla sua famiglia. Nessuno, per strada, le ha mai visto il viso e lei non desidera farsi vedere, sentire gli sguardi addosso.
La gente gli rideva dietro. “Cosa c’è di male in uno sguardo?”. A quel punto, il mussulmano è passato al contrattacco, dando ai presenti una grande lezione di moralità. “Voi no fastidio che tutti altri uomini guardare vostra moglie?”. Non c’è che dire, aveva capito tutto: lo sguardo non è mai neutro. Tu vedi una donna, o un uomo, e osservi, giudichi, trovi desiderabile o repellente, affascinante o laido.
Ha tenuto tutto un discorso, con il suo italiano stentato, facendo notare che in Occidente le donne sono scoperte oltre ogni ragionevole limite e per questo noi siamo distratti nella nostra capacità di amare. Vediamo troppo e, di conseguenza, desideriamo troppo. “Tu uscire, vede una, pensare ‘bella’. Poi vedere altra e di nuovo pensare ‘bella’. Troppo, troppo. Io vedere una, amare una”. Francamente, non trovo per niente stupida questa considerazione: il nostro mondo è segnato da un sovraccarico di erotismo che distrae dai sentimenti più alti e ottunde i sensi.
“Qui”, ha proseguito lui, “ragazza tre mesi con uno, poi cambia, sempre, tutta vita. Questo amore?”. Anche qui, come dargli torto. Io l’ho sempre detto: viviamo sostanzialmente in un regime sessuale che, sul lungo termine, tende a una poligamia monogamica, se mi passate l’ossimoro. “Noi avere quattro mogli, ma poi basta. Quattro e nessun’altra”. Sono d’accordo. La nostra strana poligamia non è eticamente superiore alla loro. E, soprattutto, cambiare partner come si fa con gli indumenti intimi è tutto fuorché amore. Casomai, è edonismo, consumismo sessuale, logica da supermercato applicata al commercio tra i sessi.
Apriti cielo, la gente al tavolo si portava le mani ai capelli, indignata. Per fortuna che il ragazzo aveva la pelle appena ambrata, altrimenti gli avrebbero dato del “neg@@ di merda”. “Tu capire me?”, mi ha chiesto lui, vedendomi particolarmente interessato alle sue posizioni. “Io non solo ti capisco”, gli ho risposto, “ma in larga parte ti condivido”. Insomma, alla fine, io, che in Italia non farei entrare un immigrato che uno, ero l’unico d’accordo con il mussulmano.
Dopo abbiamo parlato di tante altre cose, di tutte le lingue che giocoforza ha dovuto imparare per sopravvivere, della sua religione, di Gesù e di Maometto. I presenti lo stavano odiando, mentre io, il reazionario antimmigrazionista, passavo una vera e propria serata multiculturale di quelle che loro tanto propagandano. Poi, a un certo punto, gli ho domandato: “Senti, ma qui, senza moglie, come fai?”. “Ah, io avere ragazza filippina che vive in casa con me. Lei aiutato da quindici anni, quando io arrivato qua”. A quel punto, tutti, me compreso, si sono messi a ridere. “Ragazzi”, ho fatto io, “questo oramai è come noi, un gran figlio della mignotta”. Giù altre risate, ma dentro di me pensavo: non c’è niente da fare, presto o tardi l’Occidente corrompe tutti.
Matteo Fais
L’AUTORE
MATTEO FAIS nasce a Cagliari, nel 1981. È scrittore e agitatore culturale, fondatore, insieme a Davide Cavaliere, di “Il Detonatore”. Ha scritto per varie testate (“Il Primato Nazionale”, “Pangea”, VVox Veneto”). Ha pubblicato i romanzi L’eccezionalità della regola e altre storie bastarde e Storia Minima, entrambi per la Robin Edizioni. Ha preso parte all’antologia L’occhio di vetro: Racconti del Realismo terminale uscita per Mursia. A ottobre, sarà nelle librerie il suo nuovo romanzo, Le regole dell’estinzione, per Castelvecchi. Ha un canale Telegram a cui potersi iscrivere (https://t.me/matteofais)