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QUANDO IL DIRITTO DI NON ESSERE CRITICATI INCONTRA DEI LIMITI: IL CASO DELLA MODELLA ARMENA (di Franco Marino)

Sono nato in una fase storica, quella degli anni Ottanta, in cui essere omosessuali era considerato il non plus ultra della sporcizia e della perversione. Quelli erano gli anni in cui furoreggiava l’AIDS, erroneamente definito “il cancro gay”, tanto che in principio si chiamava GRID (Acronimo inglese di Immunodeficienza correlata all’omosessualità).
Senza aver avuto mai la minima pulsione omosessuale, devo confessare che ero fortemente infastidito dalla ghettizzazione che veniva fatta ai danni dei gay. Chiunque leggesse Oggi, un settimanale molto diffuso in quegli anni, veniva edotto con ogni dovizia di particolari su quanto l’omosessualità fosse una cosa cattiva e ogni settimana c’era un articolo dove si parlava di gay malati di AIDS, dell’omosessualità come malattia e quant’altro. L’acme fu quando morì Freddie Mercury e il TG1 (o TG2, non ricordo) dedicò un servizio dai toni chiaramente diffamatori nei suoi confronti, facendolo passare per un pedofilo o qualcosa di simile. Qualcosa di abominevole.

Dopo una decina d’anni e anche grazie ad una forte propaganda dei media, la condizione dei gay è migliorata. Già in quegli anni, due persone dello stesso sesso potevano sfilare per strada, baciarsi, tenersi la mano. E persino mio nonno si era diciamo così rassegnato all’idea che i gay esistano e che impedire che essi estrinsechino la propria natura non ha il minimo senso. Del resto, uno dei suoi amici più cari era il talentuosissimo e omosessualissimo attore Paolo Poli, che però va detto ha sempre avuto un atteggiamento fortemente critico nei confronti dell’omosessualismo militante, temendo che da movimento di liberazione sfociasse in lobby oscurantista.
Qui si intravede il primo punto della questione: la differenza tra il diritto di esistere e quello di imporsi in ambiti non consoni alla propria natura. La natura ammette l’omosessualità nella specie umana ma prevede che i figli nascano da un rapporto sessuale tra un uomo e una donna. Un gay rivendica il diritto di vedersi rispettato, di poter convivere con persone dello stesso sesso ma anche più semplicemente di scambiarsi tenerezze con esse. Il punto è quando dall’accettazione di sè si sconfina nella pretesa di imporsi in ambiti non propri.
Che un gay rivendichi il diritto di non essere appellato come frocio, ricchione, garruso, finocchio, buliccio, giraculo, è del tutto sacrosanto. Che pretenda di adottare dei bambini che hanno inderogabilmente bisogno di una madre e di un padre per crescere completi sul piano identitario, NO. E si espone naturaliter alle critiche di chi malsopporta le imposizioni.
Analoga sorte ha avuto il femminismo. Nato per assicurare ad una donna i medesimi diritti di un uomo, fin qui combatteva battaglie sacrosante, giuste. Certo, poi si doveva far presente all’altra metà del cielo di come i maggiori diritti di cui godesse il maschio, andassero parametrati con la maggiore propensione di questi a morire come mosche nelle guerre che, a quei tempi, non erano l’eccezione ma la norma. Ma diciamo che è giustissimo che una donna, certo non inferiore per intelligenza ad un uomo, abbia i suoi stessi diritti. Purtroppo anche in questo caso, il diritto sacrosanto ha preteso di esondare. Sino alla ridicola accusa di mansplaining, configurabile giuridicamente come una molestia, nei confronti di qualsiasi uomo che spieghi paternalisticamente (paternalisticamente secondo un’interpretazione della “vittima” che potrebbe essere puramente pretestuosa e strumentale) ad una donna una qualsiasi cosa.
Anche in questo caso, il diritto, esondando, ha prevalso sul buonsenso, perdendo di credibilità.

Questo ci porta al caso di Armine Harutyunyan, la modella armena di Gucci che in questi giorni è finita nel mirino per episodi di presunto body shaming.
La ragazza di per sè non sarebbe neanche brutta, in realtà sono le donne armene che hanno questo tipo di estetica – sopracciglia marcate – che può piacere e non piacere. A me non piace ma Gucci se ne farà una ragione. Il problema è “Da qui ad accettare che una donna venga imposta come modello di bellezza, non credete che si faccia un salto troppo in lungo?”.
E’ questo che spiega il fastidio di alcuni.
Insomma, se qualcuno mi guardasse per strada potrebbe pensare che sono un ragazzone alto e robusto, modello Cannavacciuolo, secondo un parere per fortuna abbastanza diffuso piacevole da guardare e che ispira simpatia. Ma la domanda è: si penserebbe lo stesso se io pretendessi di propormi come fotomodello per la Compagnia delle Indie o di Dolce e Gabbana? Ovviamente no e susciterei ilarità nel mondo femminile. Non avrei in quel caso il diritto di incazzarmi per un eventuale bodyshaming.

Scorrendo distrattamente la timeline di Facebook – ho la testa altrove di questi tempi – leggo un post che pure è di una persona intelligente. E’ riservato agli amici dunque non la cito.
Il post inizia così: “Sapete che detesto il politicamente corretto, ma l’odio e la cattiveria che in tanti state riversando su una ragazza armena di 23 anni è rivoltante. Tanto per cominciare. la maison Gucci è una società privata e fanno quel che gli pare.”.
E qui c’è già il primo errore. Gucci è una società privata ed è giusto che, nei limiti della legge, imponga i propri modelli di bellezza. Noi però siamo cittadini e abbiamo tutto il diritto di esprimere il nostro mancato gradimento, anche qui nel rispetto della legge. E se qualcuno non trova piacevole Armine, ha tutto il diritto di esprimerlo. Non è bullismo nè body-shaming, sono gusti ed è diritto di critica riconosciuto dall’art.21 della Costituzione. Anche qui nel pieno rispetto della legge. Dire “non è il mio tipo” o anche “secondo me è brutta” è perfettamente consentito. Dire “brutto cesso, vatti a nascondere”, no.

“Chi siete voi per giudicare in assoluto se ella è bella o brutta?”. Siamo persone con un proprio campionario di gusti e di disgusti, su cui nessuno ha il diritto di mettere mano. Se Armine non piace a tanta gente, forse è il caso che i Gucci si scelgano un altro modello di bellezza femminile.

Io ho sempre saputo che” non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace”. Che in realtà dice l’esatto contrario di ciò che l’autrice del post vorrebbe sottintendere. A molti Armine non piace e dunque quella frase perde di significato, dato che il problema è proprio che a moltissimi non piace quel tipo di donna. E quindi bella non è.

“E poi comunque, anche se ella è brutta non ha diritto a vivere?” Per l’amor di Dio, chi ha mai osato negarle questo diritto? Ma un conto è il diritto di vivere, altro conto è il diritto di imporsi come bellezza femminile e pretendere di essere accettati come tali. Cosa che si tenta di fare da giorni. Con risultati, a quanto pare, negativi.
“Perchè aizzarle contro tutta quella cattiveria e quell’odio”. E qui non posso esprimermi perchè per poter dire se la povera Armine abbia effettivamente ricevuto questa valanga di odio, dovrei consultare tutta la timeline di Facebook. Non ne ho il tempo e non ne ha il tempo nemmeno la signora che ha scritto il post, visto che è un’apprezzata avvocatessa. Come fa a dire che tutti le riversano odio? Ha controllato le decine di migliaia di post sull’argomento? Se ha riscontrato offese, esiste il modulo di segnalazione di Facebook.

Il post si conclude con “Non vi piace? Non guardatela”. E il problema è che ne stanno parlando talmente tanto che ce la ritroviamo in tutte le salse, dappertutto. Un po’ come Sanremo. Uno fa il fioretto di non guardarlo ma comunque se lo ritrova spiattellato per cinque giorni ogni anno sulle timeline e sulle tendenze di ogni social media.

In sintesi, Armine ha tutto il diritto di esistere e di essere rispettata nella sua fisicità. E’ giusto che denunci ogni forma di bodyshaming. Tutto questo fin quando non si propone come modello – ben pagato – di bellezza.
In quel caso, accettare di essere criticati è un dovere.

FRANCO MARINO

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