SPECIALE BUKOWSKI – LO SCRITTORE PIÙ CITATO E FORSE MENO LETTO (di Davide Cavaliere)
Cento anni di Charles Bukowski. Lo scrittore più citato e meno letto della storia della letteratura mondiale. Le esibizioniste che lo menzionano a piè sospinto ignorano che, a breve, sarà il suo compleanno, il centesimo per giunta. Questo fatto dona agli aspiranti scrittori una lezione di vita: pensateci bene prima di scrivere romanzi o poesie, potreste finire ad accompagnare foto di culi di donne ingrate.
Bukowski era immenso. Un grande interprete di quella tradizione letteraria americana che osserva il mondo con occhio freddo, sgonfia i barocchismi di Faulkner e disidrata il lirismo di Emerson. Uno dei pochi ad aver compreso la lezione di Kafka e quella di Céline, il non-senso della vita e la bestialità dell’uomo. Charles venne al mondo per raccontare lo squallore dell’esistenza, la sua miseria, la sua imperfezione e, rivelando il male, dargli dignità. Un bambino perfido che getta manciate di fango e sputi catarrosi sul bucato lindo degli scrittori per donnette e per accompagnatori di donnette.
“Mi sanguina il cazzo“, così comincia uno dei suoi racconti, è l’incipit più folle, delirante e divertente della letteratura americana. L’esatto contraltare del più famoso, ispirato e religioso avvio della letteratura del Paese a stelle e strisce: “Call me Ishmael”. Le storie di Bukowski sono una cronaca delle vicissitudini della brulicante umanità dell’estremo occidente, un mondo che puzza di catrame, whiskey, vernici scadenti, vomito, piscio di cane, tabacco e uova sode, fatte bollire per alleviare un dopo sbronza micidiale.
Leggendo Bukowski si può avvertire l’acuto mal di testa che si prova dopo una notte passata a trangugiare alcol scadente, quel dolore che è come una sega che si conficca nel cranio. I protagonisti dei suoi libri sono quegli individui inutili, che sono passati sulla terra, ma è come se non ci fossero mai stati. Vite sprecate. Cuori insensati. Esistenze di fatica, bottiglie vuote in forma e sembianze umane. Centraliniste, incestuosi, alcolizzati, poeti falliti, disoccupati, pedofili, maniaci, solitari, delinquenti, giocatori, paralitici, postini, sgobboni e lavativi. Leggere un suo libro mi dà la stessa sensazione di quando mi cade un oggetto nel cesso e sono costretto a infilarci la mano per riprenderlo. È solo acqua e un po’ della tua urina, ma ti fa schifo comunque. Quella di Bukowski è solo l’umanità, ma ti fa ribrezzo lo stesso.
In cosa consiste, allora, la fortuna di “Hank”? Semplice, nel suo essere quello che tutti, un po’, vorremmo essere. Il maschio asociale, menefreghista, ubriacone, scapolo e, soprattutto, libero dai più pesanti obblighi della modernità: la famiglia e il lavoro. Bukowski amava Céline “perché si è tolto fuori le viscere e ci ha riso sopra”, lui ha danzato con ciò che c’è di meschino e sporco nel mondo. In un libro accusa Hemingway di essere troppo cupo e di non ballare mai – l’autore di Per chi suona la campana non danzava con le brutture dell’essere e, infatti, ha ritinteggiato le pareti di casa col suo cervello.
Bukowski non rientra nel mio canone personale, forse non vi inserirei nemmeno Céline, ma sono due autori su cui ritorno spesso. Il realismo tragico e sudicio dello scrittore americano ci ricorda che l’umanità non è solo quella orientata al Buono, al Bello e al Vero. È una lordura immunologica, che disinfetta lo spirito dai batteri dell’ottimismo e dell’utopismo. Avvelena il lettore con la realtà, solo per farli spurgare la malsana idea di “progresso”.
Davide Cavaliere